È uscito il numero 25 della rivista di cultura ludica Tangram.

Ho contribuito con un mio articolo dedicato ai giochi dei Maya e la fine del mondo – di cui propongo, qui di seguito, la prima parte.

Nel 1907 l’etnologo Stewart Culin (1858-1929) pubblicò una monumentale enciclopedia di giochi: si intitolava Games of the North Americans Indians (“Giochi degli Indiani nordamericani”) (1)  ed era il risultato di molti anni di indagine presso numerose tribù dell’America settentrionale. Culin riteneva che i giochi non fossero soltanto una forma di intrattenimento per la comunità, ma anche mezzi attraverso i quali prendere decisioni e prevedere il futuro: molti di essi si ispiravano al contesto mitologico della tribù presso cui erano in uso, e simbolicamente mettevano in scena sfide e duelli tra divinità ed esseri umani. L’enciclopedia comprendeva anche il Bul, un gioco di guerra che alla fine dell’Ottocento era ancora in uso presso due comunità moderne di Maya: i Kekchi e i Mopan. Non sappiamo se l’usanza risalga ai Maya delle origini, ma secondo il linguista Lieve Verbeeck, sin dall’antichità la parola “bul” significava “giocare con i dadi”.

Il gioco del Bul

Il campo da gioco del Bul era un corridoio di caselle, delimitate da piccoli rametti disposti alla stessa distanza l’uno dall’altro. Le caselle alle estremità erano le rispettive basi dei due giocatori, che vi disponevano le proprie pedine (sassolini o figurine di guerrieri intagliate nel legno). Per stabilire di quante caselle potevano spostarsi le pedine, e in assenza del classico dado cubico, i Maya utilizzavano quattro chicchi di mais appiattiti con un lato annerito dal fuoco; dopo averli gettati, i punti ottenuti corrispondevano alle facce nere rivolte verso l’alto. Se nessuno dei chicchi cadeva con la faccia nera in alto, il punteggio ottenuto era pari a 5.

Stewart Culin, Games of North American Indians, p.143.

Il Bul metteva in scena una guerra all’ultimo sangue tra due popolazioni nemiche, simboleggiata da catture, liberazioni e sacrifici umani, il tutto governato dal destino – che nel gioco era incarnato dai dadi. A turno i giocatori lanciavano i “dadi” di mais e muovevano una delle loro pedine per un numero corrispondente di caselle nella direzione della base nemica. Il campo di gioco era ciclico, e una pedina che fosse arrivata al campo nemico rientrava automaticamente nella propria base. Una pedina non poteva finire in una casella dove si trovava già una pedina amica, e nel caso si fosse presentata questa situazione, il giocatore doveva muoversi con una pedina differente oppure, in assenza di altre pedine da muovere, passare il turno senza spostarsi di alcun passo.

Quando una pedina finiva in una casella occupata da una pedina nemica, quest’ultima veniva “catturata” e il giocatore avversario perdeva il controllo su di lei; per evidenziare la sua condizione di prigionia, veniva collocata sotto la pedina che l’aveva catturata, e da qui in avanti i movimenti delle due pedine erano solidali: quando si muoveva quella superiore, la pedina prigioniera la seguiva.

Se una pedina arrivava in una casella occupata da una pedina nemica che trasportava prigionieri, tutte queste ultime erano catturate e collocate sotto la pedina appena arrivata.

Quando una pedina ne catturava un’altra, al turno successivo doveva invertire la sua direzione di marcia e tornare alla base: se riusciva ad arrivarci, tutti i prigionieri nemici venivano sacrificati e quindi rimossi dal gioco; le eventuali pedine amiche tornavano libere. Il gioco era vinto da chi riusciva a uccidere tutte le pedine nemiche.

I dadi realizzati con chicchi di mais erano utilizzati dai Maya anche durante i rituali di divinazione: lo attesta il vescovo messicano Pedro Sánchez de Aguilar (1555-1648), secondo cui i loro sacerdoti “lanciavano una manciata di mais per conoscere il loro destino” (2) ; antiche raffigurazioni mostrano effettivamente una persona in abiti cerimoniali che lancia alcuni piccoli oggetti tondeggianti.

Codex Dresdensis, p.26

Esistono testimonianze visive del gioco dei dadi anche presso gli Atzechi, come una splendida pagina tratta dal codice fiorentino di Bernardino de Sahagún:

Bernardino de Sahagún, Historia universal de las cosas de Nueva España (Florentine Codex), 1577 ca.

Qui, i due giocatori si sfidano a Patolli, un gioco che ricorda il più moderno Non t’arrabbiare.


Note

1. Stewart Culin, Games of North American Indians, 24th Annual Report of the Bureau of American Ethnology, Dover Publications, 1907, pp.141-143.

2. Pedro Sanchez de Aguilar, Informe contra Idolorum Cultores del Obispado de Yucatan, Madrid 1639.

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