Durante la sua intervista a Orhan Pamuk, la scrittrice Elena Stancarelli cita un frammento del discorso con cui l’accademia svedese gli assegnò il premio Nobel, lodandone la capacità di ricreare – nei suoi romanzi – luoghi narrativi “credibili”:

Lei ha reso la sua città natale un territorio letterario indispensabile, come la San Pietroburgo di Dostojevsky, la Dublino di Joyce o la Parigi di Proust – un luogo dove i lettori da ogni parte deel mondo possono vivere una seconda vita, tanto credibile quanto la propria.

L’accento sulla credibilità accosta la figura dello scrittore turco a quella di un mago. Chi intende mettere in scena l’impossibile deve mirare, prima di tutto, alla “credibilità” di quello che offre: le sue dimostrazioni devono sembrare inconcepibili e al contempo del tutto trasparenti e autentiche. Perché ciò avvenga, il trucco deve essere nascosto con abilità.

La credibilità dei luoghi di Pamuk emerge dall’uso di trucchi raffinati. Accanto alla capacità di evocare le atmosfere di Istanbul con maestria, lo scrittore ha sviluppato una cifra stilistica che gli ha guadagnato l’aggettivo di “postmoderno”: un’intricata commistione tra realtà e narrazione, condotta in modo sofisticato.

Se qualcuno dovesse chiedersi se e quanto una parola (abracadabra?), una storia o un libro possano plasmare in modo tangibile la realtà, il suo ultimo romanzo potrebbe essere usato come una spettacolare risposta.

Qualche tempo fa Mario Baudino ha scritto della raccolta fondi che si sta tenendo a Edgbaston, la città di Tolkien. Qui, un alto edificio neogotico necessita di ampie riparazioni. Per gli appassionati del Signore degli Anelli si tratta di un luogo di culto: al suo aspetto Tolkien si ispirò per creare la fortezza di Isengard della celebre trilogia.

Per Baudino, tanto interesse è misterioso:

Davvero un brutto edificio diventa degno del massimo interesse perché (forse) è stato ricostruito in un bel libro? (1) 

Abracadabra, le parole di Tolkien stanno agendo sulla realtà.

Pochi mesi fa – fatte le debite proporzioni – ho prestato la mia consulenza per un’operazione simile: il restauro di un minuscolo pilone votivo a Torre Canavese. L’anonimo monumento ha raggiunto una qualche celebrità nel 1997, quando nel mio libretto Il Santo Graal a Torre Canavese ne ho descritto l’affresco principale come se si trattasse dell’indizio di una caccia al tesoro millenaria sulle tracce del calice di Cristo. Scherzavo, ma – abracadabra! – il restauro è stato fatto davvero.

La conversazione tra la Stancarelli, Marco Ansaldo e Orhan Pamuk – ospitata nell’ambito de “La Repubblica delle Idee” -- non ha potuto non soffermarsi su una delle più spettacolari contaminazioni tra realtà e finzione mai realizzate, che lo scrittore turco ha creato a Istanbul: il suo Museo dell’innocenza è al contempo un romanzo e un museo che ne conferma la veridicità, in un gioco che aveva fatto sollevare il ciglio a Piergiorgio Odifreddi. A proposito del progetto turco, il matematico aveva commentato su Repubblica:

Una domanda che viene in mente, è se e come una persona di buon senso possa spendere la sua vita in un’impresa di questo genere. E a cosa tutto questo possa servire, oltre a fargli vincere il premio Nobel. […] Una domanda complementare è cosa spinga molti suoi lettori, attuali o potenziali, ad andare a visitare questo museo, pagando 10 euro per osservare degli oggetti reali, il cui unico interesse è che sono diventati fittizi, e che per il resto sono uguali a tutti quelli che si trovano negli altri negozi di rigatteria di Istanbul. (2) 

All’epoca Odifreddi aveva rivolto la domanda direttamente a Pamuk, ricevendone una risposta che sottolineava gli aspetti ludici dell’operazione:

Odifreddi: Non le dà fastidio […] che alcuni suoi lettori vadano in pellegrinaggio al museo, come i lettori di Dan Brown seguono le tracce di Robert Langdon?
Pamuk: O come quelli di Tolstoj che vanno a San Pietroburgo sui luoghi di Anna Karenina? Non solo non mi dà fastidio, ma ho costruito il museo proprio perché ci andassero! C’è un aspetto ludico, nel creare confusione dicendo apertamente che la storia è immaginaria, e nel mostrare al contempo oggetti reali che le appartengono. (3) 

Ho visitato il Museo dell’innocenza lo scorso 14 dicembre, risparmiando i 10 euro grazie a un regalo di Pamuk: chi legge il romanzo fino alle ultime pagine si imbatte in un coupon stampato direttamente sul libro – un piccolo cerchio che viene vidimato all’ingresso con la farfalla-simbolo del luogo. Insieme al timbro, il lettore riceve in regalo un biglietto d’ingresso.

L’intreccio tra realtà e finzione che si respira nel museo mi ha riportato alla mente il libro di Michael Saler As If – Modern Enchantment and the Literary Prehistory of Virtual Reality (4) .

Lo studioso californiano offre un’approfondita interpretazione storica del gioco di Pamuk, analizzando opere e autori del movimento letterario del New Romance. Nata come reazione al disincantamento del mondo teorizzato da Max Weber, la corrente letteraria del New Romance produsse opere di fantasia che mimavano i trattati scientifici. Tolkien aggiungeva mappe e glossari ai suoi romanzi, creando mondi alternativi il cui rigore interno era garantito. Lovecraft faceva riferimento a precisi concetti fisici per fondare terrificanti cosmogonie, che non avevano nulla di esoterico ma si fondavano su forze elettronucleari o reazioni chimiche incontrollate. Conan Doyle dotava il suo Sherlock Holmes di una iperrazionalità i cui risvolti avevano effetti vicini alla lettura del pensiero. Tali opere miravano a stupire gratificando la ragione, senza pretendere – nel lettore moderno e disincantato – enormi balzi della fede.

Un tipo di letteratura di questo genere può avere conseguenze inaspettate: ciò che desta stupore ha, spesso, il potere di ingannare chi non riesce a distinguere i confini tra realtà e finzione. Lo sapeva bene Conan Doyle, la cui esistenza venne messa in dubbio dai lettori più naïf, convinti che il suo detective fosse più “autentico” di lui.

Saler identifica nell’ironia l’arma per mirare al “delight without delusion”, la meraviglia che non sfocia nell’inganno, e Pamuk mostra di padroneggiarne bene l’uso. Il suo romanzo trabocca di strizzate d’occhio al lettore consapevole e smaliziato. Durante un ricevimento, il suo protagonista si imbatte

nel ventitreenne Orhan [Pamuk], che fumava senza sosta […] nervoso e impaziente, [e] si sforzava di sorridere con sarcasmo. (5) 

Il sorriso sarcastico del romanziere è quello scarto minimo che rivela il gioco a chi sia attento a coglierlo. Negli ultimi capitoli Pamuk inizia a interagire direttamente con il protagonista, plasmando una struttura narrativa Escheriana, dalle cornici intrecciate in modo vertiginoso.

Pamuk ritiene che le consapevolezza di tale gioco sia tra i requisiti di un lettore moderno, che voglia godere di un’opera letteraria in tutte le sue sfumature. Al tema ha dedicato addirittura le sue Lezioni americane del 2008, intitolate “Romanzieri ingenui e sentimentali”.

Lo stesso intreccio tra realtà e finzione è al cuore delle forme più raffinate dell’illusionismo contemporaneo – in particolare della corrente sensibile al binomio Magic & Meaning: sviluppatasi anch’essa in contrapposizione al disincantamento del mondo, la prestigiazione offre esperienze teatrali in cui i confini tra verità e finzione sono stravolti. Nelle sue incarnazioni più sottili, il suo scopo è quello che Coleridge attribuiva alla poesia di Wordsworth:

suscitare un sentimento analogo a quello del soprannaturale, risvegliando l’attenzione della mente dal letargo dell’abitudine, e rendendola sensibile alla grazia e alla meraviglia del mondo dinanzi a noi. (6) 

Nell’ultima parte dell’intervista Pamuk ammette la doppia valenza – estetica e politica – di molti suoi scritti. A proposito del recente disboscamento di un grande parco nel centro di Istanbul, che ha dato il via a disordini in tutto il paese, lo scrittore fa ancora riferimento alle narrazioni: da sempre i turchi si ritrovano tra quegli alberi, e ad ognuno hanno legato una storia, un frammento della propria vita. Segare gli alberi significa rimuovere i ricordi e cancellare le storie. A conferma che le parole creano la realtà, ma cambiare la realtà può influire a sua volta sulle storie. O per dirla con Alan Moore,

Ci sono gli individui e ci sono le storie. Gli individui credono di manipolare le storie, ma spesso avviene di più il contrario. Le storie creano il mondo.


Note

1. Mario Baudino, “La torre di Tolkien e i giallisti distratti” in La Stampa, 11.1.2013.

2. Piergiorgio Odifreddi, “Realtà e finzione”, 1.2.2013.

3. Piergiorgio Odifreddi, “Ero l’idiota di famiglia poi ho vinto il Nobel”, 21.2.2013.

4. Michael Saler, As If – Modern Enchantment and the Literary Prehistory of Virtual Reality, Oxford University Press, New York 2012.

5. Orhan Pamuk, Il museo dell’innocenza, Einaudi, Torino 2011, p. 128.

6. Samuel Taylor Coleridge, Biographia literaria, 1817 (capitolo 14).

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