Torino, Libreria Feltrinelli. Tra me e Zerocalcare c’è un muro di centocinquantaquattro persone. Il biglietto numero 0155 è impietoso: il mio turno arriverà solo tra molte ore. È peggio che in salumeria, ma in cuore gioisco per il suo successo.

Abbandono il campo, ma è una resa a metà. Rinuncerò al disegnetto, ma non a congratularmi. Apro il portatile e mi metto a scrivere questo post.

Incuriosito da un tweet di Loredana Lipperini, nei giorni scorsi ho letto (e molto amato) Dimentica il mio nome, il racconto a fumetti che Zerocalcare ha presentato mercoledì 12 novembre nella mia città.

Procuràti anche i quattro libri precedenti (1) , mi sono interrogato sul dettaglio che mi rende l’autore tanto amabile.

In superficie è una questione generazionale. Apparteniamo alla stessa tribù: stessi videogiochi, stessi scazzi, l’infanzia in un quartiere popolare, le ginocchia sbucciate cadendo dalla BMX e l’odio per i paninari. Non più giovani e non ancora vecchi, alla rievocazione nostalgica preferiamo una rilettura ironica dei giorni che furono – e quello scanzonato (ma mai cinico) di Zerocalcare sembra l’unico tono ammissibile per un’operazione del genere. Ma l’Amarcord non è ancora il quid che cercavo.

Il punto è che Zerocalcare non è accondiscendente. Mi basta una vignetta per spiegarlo.

Lo scorso 16 agosto avevo ventidue ore di volo sul groppone. I miei genitori mi hanno recuperato all’aeroporto per accompagnarmi a casa, e durante il viaggio una banale divergenza sulla strada da percorrere si è trasformata in uno spiacevole litigio. Tre mesi più tardi, tra una risata e l’altra, mi imbatto nella vignetta sopra e barcollo. È un pugno in pieno viso.

Un’immagine del tutto priva di retorica. Il ritratto freddo e impietoso di un banale frammento di vita. Nel contesto in cui è inserito fa perfino ridere, ma nel più ampio arco narrativo acquista tutt’altro spessore. Parla di ingratitudine, di quella cecità agli altri di cui ci accorgiamo quando è ormai troppo tardi. Zerocalcare parla delle mie miserie quotidiane, e lo fa con rara sensibilità: un contrasto irresistibile con le immagini d’orrore che giornali e TV diffondono dei cosiddetti “giovani dei centri sociali”.

Chiuso il libro, ho comprato una focaccia dolce a mio padre. Con gran sollievo: ero ancora in tempo a chiedergli scusa.

Zerocalcare non è accondiscendente. Non strizza l’occhio al mio lato cinico e indifferente ma mi costringe a guardarmi allo specchio e a riconoscermi stronzo. È quello che cerco in una storia. Lo stupore che mi risveglia dalla sonnambulia e la coltivazione, spietata e chirurgica, di un senso di profonda vergogna per le mie miserie.


Note

1. Gli editori si chiedono spesso a quante copie vendute equivalga un tweet; certifico che quello di Loredana è valso cinque copie e una focaccia dolce.

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