Da quando il mago inglese Dynamo è sbarcato in Italia con le sue serie a puntate (“Magie impossibili”), un’intervista con Fabio Fazio e una pubblicità per la FIAT, da più parti mi è stato chiesto un parere sulla sua magia.

Di lui ho già scritto raccontando i retroscena sconosciuti della sua passeggiata sul Tamigi ed esplorando le “origini” del supereroe Dynamo.

A differenza dei colleghi che si esibiscono a teatro, il suo è un personaggio esclusivamente televisivo. Ogni puntata delle sue serie è ambientata in una città diversa e un team di autori individua una dozzina di giochi di prestigio che possono sfruttare le caratteristiche specifiche di ogni luogo: a Hollywood, davanti al Chinese Theater, imprime a distanza l’impronta delle sue mani accanto alle decine appartenenti ad altri artisti; in un villaggio indiano, dove è attiva una campagna di riciclo, rimette a nuovo una lattina a partire da uno scarto in alluminio; di fronte a un edificio universitario, impara a memoria un libro in pochi secondi per stupire alcuni studenti.

La narrazione, però, resta al Livello Zero; non c’è alcun risvolto metaforico nei suoi numeri, sottolineati dal pubblico con una reazione ripetuta all’infinito senza varianti: «Ma sei bravissimo! Ma come fai?» Il modello di ogni esibizione è monotono e costante: ti lascerò incredulo, mio spettatore, e tu mi applaudirai per questo. La magia di Dynamo è una collezione di enigmi autoreferenziali che – usando un’espressione di Max Maven – non fanno mai riferimento a “un più ampio universo magico che trascende i confini della performance” (1) 

Un aspetto che sfugge al grande pubblico è il conflitto sotterraneo tra gli illusionisti teatrali e quelli che hanno scelto il mezzo televisivo per proporre la propria arte. L’errore che si commette nel giudicare Dynamo sta nell’individuare l’antenato sbagliato: il mago inglese non è l’erede di Houdini ma di Georges Méliès (1861-1938).

L’illusionista francese aveva comprato a Parigi il teatro appartenuto al padre della magia moderna – Jean-Eugene Robert-Houdin (1805-1871) – e lì si esibiva mettendo in scena tutti i numeri classici dell’epoca. Nel numero della donna che spariva, l’artista metteva al centro del palco un giornale aperto (per fugare il sospetto che la sparizione avvenisse tramite una botola), accomodava un’assistente su una sedia, la copriva con un telo e la faceva sparire tra gli applausi. (2) 

Il gioco di prestigio di Méliès tratto da due libri di magia dell’epoca. Si noti il giornale collocato sotto la sedia.

Dopo aver scoperto i primi esperimenti cinematografici dei fratelli Lumière, il mago parigino iniziò a usare il Teatro Robert-Houdin per riproporre i suoi trucchi davanti a una rudimentale cinepresa, avendo intuito la questione cruciale: la possibilità di tagliare la pellicola gli dava un notevole vantaggio sui colleghi vincolati alle esibizioni dal vivo.

Il suo film Escamotage d’une Dame au Théâtre Robert-Houdin (1896) è la versione cinematografica del gioco da lui presentato per anni (con molta più fatica e tensione) davanti a un pubblico live; il suo tentativo di allineare le due esperienze agli occhi degli spettatori si riconosce dall’apertura del numero, in cui il mago mostra un giornale e lo colloca al centro del palco.

Georges Méliès stende un giornale e vi colloca sopra una sedia.

La botola resta un dubbio da fugare anche sul grande schermo.

Méliès ammetteva candidamente che il cinema gli stava offrendo una marcia in più rispetto ai maghi che non vi ricorrevano:

Quando erano in scena [al Teatro Robert-Houdin] ai maghi poteva capitare di essere in forma un giorno, fuori forma l’altro. E lo stesso poteva avere conseguenze sui trucchi magici. Con il cinema, quando un mago presenta un trucco con successo, quel momento è per sempre. Un vantaggio notevole! (3) 

Commentando i film a sfondo illusionistico del mago e mentalista George Albert Smith (1870-1951), Charles Musser scrive:

Usando i tradizionali giochi di prestigio come soggetti cinematografici, e sviluppandoli ulteriormente nel nuovo medium, artisti come Smith sfruttarono il cinema come strumento per estendere il dominio della loro arte; a farne le spese furono i colleghi che si esibivano solo a teatro. (4) 

Il vantaggio di cineasti e videomaker frustra da oltre un secolo i prestigiatori che non hanno a disposizione – o non vogliono ricorrere a – “trucchi” diversi da quelli classici (come la velocità di mano o l’astuzia psicologica). Il taglio della pellicola (e la CGI, che ne è la versione digitale) è ancora considerato, dalla maggior parte degli illusionisti, un “gioco sporco” a cui nessun prestigiatore dovrebbe ricorrere. Il conflitto tra colleghi avviene dietro le quinte, all’insaputa degli spettatori – per i quali conta solo il risultato. Per citare un paragone efficace, un selfie scattato in cima all’Everest è identico se si è arrivati in vetta usando un elicottero o scalandone le pareti; non a caso, un simile conflitto sotterraneo anima la comunità degli alpinisti che si chiedono se sia (o meno) uno “sporco trucco” l’uso di strumenti tecnologici sempre più sofisticati per arrivare in cima.

Come fa notare Maxime Scheinfeigel, il cinema e la magia delle origini si basavano essenzialmente su ignoranza e innocenza:

Sul versante della magia, l’utente ideale era l’individuo non “iniziato” ai suoi meccanismi segreti né ai trucchi dei suoi praticanti. Sul versante cinematografico, lo spettatore ideale era chi ignorava quello che avveniva dietro lo schermo, fraintendendo la realtà delle immagini e i tecnicismi che si nascondevano dietro la loro realizzazione. (5) 

Ritenendo erroneamente di aver perduto l’innocenza, a un secolo di distanza osserviamo con occhi disincantati i film di Méliès: la sparizione di una donna dal palcoscenico del Teatro Robert-Houdin grida il trucco da ogni fotogramma e il “salto della pellicola” non ci frega più.

Ma siamo di nuovo noi, davanti a uno show televisivo di Dynamo, a interrogarci: ma come diavolo ha fatto a far sparire quella moneta? Non vogliamo credere che Méliès abbia solo cambiato volto e stia usando sempre lo stesso trucco con l’obiettivo di restituirci (a nostra insaputa) l’innocenza perduta.


Note

1. Eugene Burger e Robert Neale, Magic and Meaning Expanded, Hermetic Press, Seattle 2009, p. 130.

2. Il gioco è descritto in Albert Allis Hopkins e Henry Ridgely Evans, Magic, Stage Illusions and Scientific Diversions including Trick Photography, Sampson Low, Marston & Co., London 1897, p. 43.

3. Georges Méliès, “Les Vues cinématographiques”, Annuaire général et international de la photographie cit. in Maxime Scheinfeigel, Cinéma et magie, Armand Colin Cinéma, Parigi 2008, p. 43.

4. Charles Musser, “The American Vitagraph” in John L. Fell, Film Before Griffith, University of California, Los Angeles 1983, p. 44.

5. Scheinfeigel 2008, p. 163.

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