Angelo Zampedri

La mitica leggenda di Rama

Le reminiscenze secolari che si tramandano da generazioni in questa vallata hanno trasmesso fino al ventesimo secolo la leggenda della splendida Rama.

È forse il mito più importante, il ricordo sbiadito nei fumosi meandri del passato di una città favolosa avvolta perennemente in un alone di mistero.

Si sa ben poco di questa civiltà che forse ha contribuito in modo decisivo all’evoluzione dei futuri abitanti della Valle, anche se questo territorio ha visto il passaggio di popolazioni di diversa origine che hanno lasciato indelebili tracce delle loro tradizioni e della loro primitiva cultura; l’eco lontano degli splendori e dei giorni magici di Rama è volato oltre le invalicabili barriere spazio temporali ed è giunto sino a noi per testimoniarci i prodigi di uomini evolutissimi, veri maestri di scienza e arti magiche il cui ricordo si è tramandato nei secoli.

Alcune tradizioni li indicano provenienti dall’India e il nome Rama dato alla futuristica città lo confermerebbe, in quanto questo appellativo ricorda una delle principali divinità di quella spiritualissima e lontana contrada.

Altre ne ipotizzano l’origine da un remota terra oltre l’oceano Atlantico, distrutta da un tremendo cataclisma: essi, sfuggiti miracolosamente ad un destino di morte sicura, approdarono con le loro navi sulle coste europee e si diffusero in diverse località del continente.

Sparuti gruppi di questi fantastici uomini, giunti in val di Susa, probabilmente attraverso le Alpi, costruirono una città ciclopica e favolosa, dimostrandosi depositari di una cultura e di una preparazione scientifica decisamente superiore.

L’incomparabile Rama, urbe dai mille splendori la cui origine è datata in tempi antichissimi, fu edificata alle falde dell’aspro Rocciamelone o Roc-Maol, secondo l’idioma celtico.

Si dice costruita con enormi massi di pietra, perfettamente squadrati e collocati uno sull’altro con una tecnica perfetta di ingegneria che dimostra l’alto grado di preparazione dei suoi misteriosi edificatori.

Circondata dalle rocciose ed impervie montagne che ne delimitavano i confini come autentiche sentinelle naturali, era un vero simbolo di potenza e di somma regalità.

Possedeva ampi e lunghissimi portici che si estendevano dall’attuale paese di Bussoleno fino alle ghiaie desolate di Bruzolo e terminavano alla riva della Dora Riparia.

Tutte queste costruzioni erano situate sul lato destro del succitato rivo e si diramavano verso l’attuale complesso premontano di Susa.

Essa era la capitale, il centro di governo di un’immensa megalopoli che iniziava con approssimazione dal territorio ove al presente sorge la città valsusina e si proiettava con un’agglomerato urbano di enormi dimensioni fino alle porte della metropoli della Mole.

Una trentina di chilometri o poco meno, un panorama di fantascienza pura per l’odierno abitante della Valle che pur dando sfogo alla più sfrenata fantasia non può realizzare completamente tutte le meravigliose creazioni di cui faceva sfoggio questa mitologica civiltà.

Nel secolo scorso, parecchi ricercatori si occuparono dell’enigmatica questione, con l’intento di reperire testimonianze e fatti concretamente dimostrabili che ne avvalorassero l’esistenza remota.

Rama era la città vera e propria, sede del popolo e dei sapienti. In essa svolgevano le consuete attività commerciali di una reale vasta metropoli, in essa fiorivano e si diffondevano le attività intellettuali.

Esisteva un’università di studi e una biblioteca di enormi dimensioni che conteneva volumi di storia, di scienze e di filosofia.

È trapelato che alcuni studiosi nel secolo passato hanno avuto l’incredibile fortuna di vedere uno di questi antichissimi testi e di averne copiato poche parti che naturalmente risultarono indecifrabili.

Il Roc-Maol, era la sede estiva degli abitanti di Rama che, con l’avvento delle afose giornate, si trasferivano sui suoi pendii alla ricerca della frescura montana.

La vetta era riservata ai sacerdoti e ai sapienti che si riunivano per osservare, discutere e studiare i fenomeni celesti.

Ai piedi dell’attuale Bosco Nero esisteva un giardino di estensione notevolissima che al tempo della fioritura rivelava tutti i suoi splendori, presentando alberi incantevoli e fiori stupendi, incredibilmente rari che lo rendevano simile ad un terrestre paradiso.

Dalle poche descrizioni giunte fino a noi si apprende che i loro caratteri morfologici li distinguevano nettamente dalle altre popolazioni montane: scurissimi di pelle, con lo sguardo fiero e penetrante unito ad una bellezza non comune, abbinata ad un fisico perfetto, erano immunizzati da qualsiasi malattia del loro tempo e questa caratteristica decisamente utopistica li accompagnava sino alla morte che avveniva solamente per vecchiaia, a tardissima era.

Ciò significa con tutta probabilità che i loro biologi e scienziati avevano raggiunto traguardi elevatissimi che purtroppo si sono persi in un apocalittico disastro naturale.

Millenni di studi e di vittorie sull’arcigna natura sono scomparsi in un attimo ad eterna conferma dell’estrema caducità delle cose umane.

Erano preparatissimi oltre che nelle scienze razionali anche nelle occulte espressioni del sapere: esoterismo, magia, alchimia, non avevano segreti per il loro spirito indagatore, li ricorderemo come formidabili maghi che sapevano cogliere e decifrare i più reconditi segreti naturali con semplicità ed intuito ultraterreno, essendo discendenti e depositari di una cultura decisamente più progredita e non di secoli ma di millenni rispetto alla nostra attuale…

Si dice che il loro simbolo magico fosse il TA, un misterioso segno del quale non si sono tramandati le proprietà e gli effetti che unito a formule nebulose, a noi del tutto sconosciute, consentiva ai loro sapienti di dominare l’universo e la natura.

A questo punto il reale e l’irreale si fondono in un’unica essenza e i loro confini diventano indecifrabili e suscettibili di repentini cambiamenti.

Noi prendiamo nota di queste pur notevoli ricerche ma non ci sentiamo disposti di avallarne gli esiti nella loro totalità.

Alcune leggende raccolte dopo studi minuziosi ci riportano la storia tristissima della loro fuga da una patria ormai scomparsa tra i marosi, naufraghi sperduti in un oceano spietato, ultimi sopravvissuti d’un popolo altamente e spiritualmente evoluto, decimato e distrutto da un tremendo maremoto che inabissò la loro terra in un allucinante disastro naturale.

Raggiunto per volere Divino un nuovo e sospirato litorale dopo aver affrontato i pericoli di ondate gigantesche e la furia deleteria delle tempeste oceaniche, peregrinarono per il continente europeo e dopo aver valicato le Alpi si fermarono nella nostra vallata perché proprio in quel luogo avevano trovato un raro materiale che essi impiegavano per i loro scopi segreti.

Scavarono vere e proprie miniere: ancora oggi i vecchi valligiani ci tramandano una incredibile serie difatti leggendari tra cui si narra che i loro enigmatici strumenti di lavoro siano rimasti sepolti in quelle fantomatiche cave estrattive, un tesoro che non ha prezzo e potrebbe cambiare totalmente l’esistenza di un ipotetico fortunato ricercatore, in quanto i favolosi maestri estraevano il minerale con quell’aggeggio sconosciuto, estirpandolo con la sola luce emanata dal succitato ordigno di lavoro, forse un raggio ignoto con proprietà oltre il limite della nostra immaginazione.

Si ricorda che persino i Romani effettuarono delle ricerche particolari nel Bosco Nero sperando con un’indagine metodica di reperire i desiati strumenti da scavo che si supponeva fabbricati con misteriose formule alchemiche.

Quindi l’eco lontanissimo della loro potenza e le incredibili invenzioni del loro genio erano giunte attraverso i secoli ad interessare l’Impero Romano che continuò lo scandaglio della zona anche per ritrovare la città nascosta nella roccia viva del Roc-Maol.

Ma purtroppo i loro sforzi risultarono vani, la crudele montagna non lasciò trapelare i suoi segreti e valanghe di scoperte rivoluzionarie, patrimonio di una civiltà superiore, continueranno ad essere prigioniere, incastonate nella durissima e spietata roccia! La fantastica Rama, come sostengono alcuni studiosi dell’ottocento, scomparve all’improvviso, distrutta da un diluvio terrificante che provocò enormi frane sulla montagna precipitando masse spaventose di terra e roccia dai monti circostanti.

Oppure, come asseriscono altri, vi fu un apocalittico terremoto che la inghiottì in una voragine senza fine, chiudendola poi per sempre con un sinistro suggello, cancellando quasi totalmente i segni inconfondibili della sua esistenza e del suo splendore.

Anche se la verità forse non la sapremo mai, evidentemente qualche traccia rimase e la supposizione è confermata da quelle leggende, così tenaci e precise nei particolari, raccolte nei punti più disparati della Valle che testimoniano una cultura che seppe rivivere nei discepoli dei grandi maestri che erano stati gli antichi dominatori di Rama.

Esistono nella Valle delle credenze che indicano per certo il ritorno di un personaggio, i cui poteri sovrumani lo rendono superiore al Cristo.

Questa leggendaria asserzione è stata desunta dalle “Memorie mirabili dell’Abate Francis” del 1789.

Sono forse speranze politeistiche? Può essere il grande amore per questa terra a farle sognare, quasi un delirio che li porta ad imbastire leggende e a modificare quelle tradizionali? Chissà?

Tanti interrogativi con uno forse più grande ed importante: cosa rappresenta la Valle di Susa nella storia segreta dell’Umanità?

Comunque nel libro succitato si narra la fiaba tipicamente pagana di Fetonte, figlio del Sole, che precipitò al suolo non essendo riuscito a manovrare il carro celeste del padre. Le tradizioni ci tramandano che ciò avvenne quando sul nostro pianeta la massa gelida delle nevi eterne dominava incontrastata, una glaciazione che lo rendeva desolato e deserto.

Ma Fetonte secondo il folclore locale non era una persona bensì un oggetto semi divino e dove cadde si aprì un’enorme fossa in cui poteva starci un’intera città, forse Torino le cui origini leggendarie sono legate ad un menzionato Fetonte, principe egizio, anche se le leggenda di Augusta Taurinorum si svolge ed è tramandata in termini totalmente diversi…

Quel misterioso oggetto fu ritrovato dopo alcuni anni, perfettamente in tatto e si dice che possedesse la non comune proprietà di evocare gli dei, in fatti così è successo secondo un’ancestrale tradizione: quando la grande isola Atlantide sprofondò negli abissi, molti superstiti giunsero nella Valle, quasi guidati da un prodigioso disegno ultraterreno e trovarono ivi dimora, costruendo una città senza confronti.

Così ci narra l’Abate Francis ma a questo punto ci viene spontaneo l’accosta mento con la repentina sparizione di Rama, forse distrutta da un incidente cosmico fortuito o voluto: e se voluto, da chi? Ma chi era in realtà questo popolo? Forse i pochi scampati all’immenso cataclisma che distrusse la mitica Atlantide?

Probabilmente non lo sapremo mai e il dubbio aleggerà per sempre sovra no nelle nostre menti ormai totalmente affascinate da tanto mistero!

Certo che se la succitata supposizione fosse vera, quali tremendi misfatti devono aver commesso i supremi Atlantidei per essere perseguitati in continuazione dalle catastrofi naturali che condannarono gli sparuti superstiti essere tanti erranti senza patria, alla continua ricerca di un approdo e di un sito sicuro per continuare a vivere?

Forse è una punizione Divina che li perseguita per i misfatti o colpe commesse quando il loro impero era all’apogeo nel nostro pianeta?

Certamente non è facile sciogliere l’enigma ma è quasi certo che nella Valle di Susa alcune persone appositamente selezionate si tramandano da gene razione in generazione l’alto onere di Custodi Secolari del tremendo segreto lasciato agli eredi di Rama… e gli antichi maestri, forse da una sconosciuta dimensione immateriale vegliano su di loro affinché tutto si compia come predisposto dall’Essenza Suprema, fine e principio di ogni cosa, che gravita da sempre nella miriade di universi che compongono il Creato!

  Fonte Angelo Zampedri, Magia e leggenda in Valle di Susa, Susalibri, Sant’Ambrogio 1991, pp. 48-52.

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