Spiritualità atea


Spiritualità atea

La lettera di un’amica e l’ultimo libro di Alain De Botton mi hanno portato a riesumare un vecchio articolo che avevo intitolato "Agnosticismo illuminato". Prudenza consiglierebbe di stendere un pietoso velo sui propri scritti adolescenziali, ma alcune delle idee lì raccolte le ho ritrovate magnificamente espresse in Del buon uso della religione. Nel suo studio dedicato alla spiritualità atea, il filosofo svizzero fa infuriare in modo trasversale atei e credenti, affermando che

si può rimanere atei convinti riuscendo, almeno sporadicamente, a trovare nella religione una qualche utilità, un qualche motivo di interesse o fonte di conforto, e prendendo in considerazione l’ipotesi di adattare alla vita laica alcune norme e consuetudini religiose.

Estremisti dell’una e dell’altra sponda hanno accolto con scetticismo la medietas invocata da De Botton, che corteggia apertamente alcuni aspetti delle religioni organizzate per reimpadronirsene in forma laica. In maniera più introspettiva, nel mio scritto esprimevo una simile e duplice attrattiva:

Credente tra gli atei, ateo tra i credenti, assumo - in ambito religioso - un atteggiamento che, citando Raymond Smullyan, "non è dovuto ad un perverso spirito di contraddizione! Cerco soltanto di bilanciare la cosa. Se qualcuno mi obbliga a bere troppe sostanze basiche, cercherò immediatamente di neutralizzarle bevendo dell’acido, e viceversa. Dunque quando qualcuno cerca di inculcare idee velenose nel mio sistema, io cerco immediatamente di neutralizzarle assumendo il veleno opposto."

Del resto del mio saggio, ben poco sopravviverebbe all’intervento di un bravo editor. Introducendo i concetti di "falso positivo" e "falso negativo", sulla scia di Pascal riflettevo sugli ovvi rischi connessi all’una e all’altra scommessa, e tra le citazioni offerte qua e là, rileggo sempre con piacere le provocazioni di Raymond Smullyan:

Sono del tutto d’accordo con i critici sul fatto che il raggiungimento della verità sia la cosa più importante nella vita di una persona. Prenderei addirittura una posizione più estrema, arrivando a misurare il valore di un individuo nella sua capacità di conoscere la verità o – meglio ancora – di scoprire nuove verità che vadano a beneficio degli altri. Questo implica che non sia desiderabile che un individuo del genere creda a qualcosa di falso? La mia risposta è non necessariamente! Supponiamo che la falsa credenza non solo sia utile, ma che in effetti gli permetta di scoprire molte altre e valide verità che altrimenti non scoprirebbe. Potrebbe sembrare folle, ma ho in mente una situazione di questo tipo: supponiamo che l’uomo sia uno scienziato, che ha grande capacità scientifiche ma a volte cade in crisi emotive che gli impediscono di continuare a lavorare. È impedito nello studio, e non è in grado di proseguire nelle sue scoperte o nei suoi lavori. Cosa potrebbe fare? La maggior parte delle persone ai giorni nostri gli suggerirebbero di andare da uno psichiatra. Bene, supponiamo che la psichiatria non gli sia di alcun aiuto; potrebbe essere incompetente il suo analista oppure la psichiatria stessa essere incapace di risolvere questo tipo di problema – o per essere più clementi verso gli psichiatri, lui potrebbe non essere quel tipo di persona curabile dalla psichiatria. In ogni caso, lo psichiatra non ha aiutato lo scienziato. Completamente disperato, lo scienziato ha una fantastica conversione religiosa verso una religione completamente falsa. Questa religione, però, è in grado di far recuperare allo scienziato la sua serenità, per cui può ricominciare a lavorare. Come risultato, egli scoprirà per tutta la vita delle verità scientifiche. Ora, come reagirebbero a questa situazione gli adoratori della verità? Abbiamo il curioso caso di una persona che scopre molte importanti verità scientifiche in virtù di un credo che è falso! Dunque è stato o non è stato meglio che lui vi aderisse? Qualcuno potrebbe rispondere: «Beh, in casi eccezionali come questo va bene, ma certamente potrebbero esserci dei metodi più sani per evitare i disturbi emotivi che non entrare in una religione fasulla». Sono abbastanza d’accordo con questo pensiero. Se si può trovare un metodo più sano, anch’io lo preferirei. Ma se non lo si trovasse?

Il logico americano si chiedeva chi avesse detto che Dio preferisce la fede alla ragione: magari è proprio l’opposto! Potrebbe darsi che Dio sia – in fin dei conti – un Logico, e apprezzi molto di più chi usa la propria ragione che non chi la lasci perdere per affidarsi a convinzioni non dimostrate. Un Dio così mi sarebbe estremamente simpatico!

Sulla pretesa di sostenere l’assenza di Dio attraverso una spiegazione psicologica dell’origine delle credenze, Smullyan argomentava ancora:

Ciò non getta assolutamente alcuna luce sulla questione più fondamentale della verità o della falsità del teismo. Come altri hanno ottimamente messo in evidenza, una spiegazione delle origini di una credenza che si fondi solamente su basi psicologiche non costituisce in alcun modo prova razionale a favore o contro quella credenza.

L’elemento emotivo ha, in effetti, un ruolo molto più importante di quanto sia generalmente ammesso da credenti e non credenti, e Smullyan riassumeva in quattro categorie gli intrecci possibili tra fede ed emotività:

Primo indiano: Se io credo nel Grande Spirito Bianco? Certo che ci credo! Lo sento persino!
Secondo indiano: Come ti invidio! Ho sempre creduto nel Grande Spirito Bianco ma non ho mai potuto sentirlo.
Terzo indiano: Che strano! La mia situazione è opposta. Io ho sempre sentito il Grande Spirito Bianco ma non gli ho mai potuto credere. Credo che le mie sensazioni siano soltanto delle superstizioni infantili rinforzate dagli insegnamenti dei miei padri.
Quarto indiano: Sembra dunque che io sia l’unico maturo e sano di mente tra tutti. Io né sento il Grande Spirito Bianco né credo in lui.

Colpito dalla lucida tassonomia, confessavo di aver vissuto fino ai 23 anni nei panni del primo indiano, di aver transitato per due travagliati anni nei panni del secondo per finire, a 25 anni, nei panni del terzo. Condizione in cui mi trovo tutt’oggi, come il mistico scettico raccontato da Smullyan nel breve scambio:

John: Hai mai avuto esperienze mistiche?
Jim: Oh, ne ho continuamente, ma non ci credo affatto!

Nel suo libro The Tao is Silent il logico e prestigiatore americano attribuiva un notevole valore vitale alla trascendenza delle categorie della logica; in apertura del suo libro sul rapporto tra il taoismo e la logica occidentale, scriveva:

Per salvare la propria anima, il credente deve convincere a tutti i costi l’ateo che Dio esiste. Per incoraggiare il progresso sociale, l’ateo deve convincere a tutti i costi il credente che la fede in Dio è una cosa infantile, una superstizione primitiva. Per questo motivo si scontrano continuamente. Nel frattempo, il saggio Taoista è seduto tranquillamente lungo la riva di un fiume, magari con un libro di poesie, un bicchiere di vino e qualcosa per dipingere, godendosi il Tao nella sua pienezza e non preoccupandosi del fatto che il Tao esista o non esista. Il saggio non ha bisogno di affermare il Tao; è troppo impegnato a goderselo!

Il mio breve saggio si chiudeva con una riflessione etimologica:

Concludo con una considerazione a proposito del mio rapporto attuale con la religione. Il termine deriva da un verbo latino che significa "legare insieme". Dunque il vero significato della parola è "che tiene insieme"; ciò implica una filosofia e un sistema etico che guida una società come fosse un sol corpo, senza necessariamente far riferimento ad un Dio. È questo il motivo per cui le emozioni che tipicamente accompagnano l’esperienza religiosa, come il sentirsi parte di una realtà più grande, possono essere sperimentate anche dai non credenti, costituendo una forma di "spiritualità atea". In questo senso - e solo in questo senso - mi sento profondamente religioso.

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