In Mostri (Altrecose 2024), Claire Dederer si chiede con quale spirito si possa guardare un film sapendo che chi lo ha firmato si è comportato in modo moralmente inaccettabile. Il libro esamina la frattura tra la potenza delle opere e la colpa di chi le ha create.

Tra i film citati c’è “Io e Annie” (1977), definito “la più grande commedia cinematografica del XX secolo”. Pur firmato da Woody Allen, è Diane Keaton a renderlo vivo con una performance “assolutamente inimitabile”: la sua Annie Hall è una donna che si spoglia delle regole del desiderio maschile e le riscrive con naturalezza e humour; con la sua grazia ironica e una visione del mondo “assurda e quasi non verbale”, trasforma una storia nevrotica in un film sull’autenticità, inventando una figura femminile emancipata e tenera, capace di restituire all’amore la sua fragilità senza sentimentalismo.

Del film Dederer ammira “il tocco di ambiguità emotiva aggiunto alle battute di cattivo gusto, il rifiuto del lieto fine, ammorbidito dalla sensazione complessiva di assistere a un rapporto di amicizia molto maturo”. Poi sposta lo sguardo su “Manhattan” (1979), dove quella maturità si incrina. Qui Allen mette in ridicolo la pretenziosità dell’intellettuale interpretata da Keaton, contrapposta all’innocenza della giovanissima protagonista intorno a cui il film si svolge.

Riconoscendo l’influenza con cui “Manhattan” piegò l’attrice alle esigenze di una storia moralmente discutibile, il libro restituisce a Keaton una grandezza non lineare. La Annie Hall che ride, inciampa e dice la-di-da appartiene a un momento di libertà irripetibile; la Mary Wilkie di “Manhattan” vive nei limiti di un universo che non le concede più la stessa leggerezza. Il libro trova la sua forza proprio nell’unire l’ammirazione più profonda a un’indagine sottile degli aspetti moralmente discutibili delle opere.
E per unirmi al cordoglio per la scomparsa di Diane Keaton, faccio mie le parole di Dederer perché davvero, guardando “Io e Annie”,
si sente fino in fondo, per un momento, di appartenere al genere umano. E ci si scopre quasi aggrediti da quel senso di appartenenza. È un legame fittizio che può essere più bello dell’amore stesso. (1)
1. Traduzione di Sara Prencipe.
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