Oggi è il suo 76° compleanno, ma difficilmente offrirà un pubblico ricevimento: Thomas Pynchon non ama apparire. Più volte candidato al Nobel per la letteratura, è considerato tra i più grandi scrittori postmoderni, ma – come il writer Banksy con i suoi graffiti – ha fatto la scelta di parlare solo attraverso i suoi romanzi.

Due caratteristiche ne segnano la cifra stilistica: una smodata curiosità per tutto ciò che è dimenticato – siano persone, fatti, luoghi o tecnologie – e un gusto per la sovrabbondanza di dettagli, le storie eccessive e inverosimili e le centinaia di riferimenti a fatti storici, veri e inventati.

Il suo stile di scrittura è talmente labirintico e rutilante da aver indispettito molti critici, ma al contempo l’ha trasformato in un autore di culto.

Avendo studiato fisica a Cornell, nei suoi romanzi propone vertiginose contaminazioni tra umanesimo e scienza. Giuseppe Salzano ne rileva così il deviato gusto enciclopedico:

[Pynchon] mette in luce, attraverso una fitta rete di richiami, le connessioni occulte della realtà e si nutre di ogni aspetto della cultura popolare: il jazz, il romanzo giallo, il pulp, la fantascienza, il fumetto, la musica, le guide turistiche, i B-movie, senza contare gli innumerevoli contenuti a carattere scientifico-divulgativo: fisica, statistica, cibernetica, elettronica, teoria dell’informazione, biologia, chimica, neuro–fisiologia, balistica ed elettronica. In ultima istanza, la Tecnica e la Tecnologia assurgono ad autentiche protagoniste della scena. (1) 

Come un illusionista della parola, Pynchon racconta storie vere che sembrano false e viceversa; al lettore attento, però, offre sempre tutti gli elementi per documentarsi e distinguere verità e menzogna; in questo modo, persegue in maniera lucida l’obiettivo della “meraviglia senza inganno” teorizzata da Michael Saler nel suo As If.

Nel suo noir Vizio di forma il rapporto complesso tra vero e falso è condensato in uno scambio fulminante:

Gli investigatori privati dovrebbero stare alla larga dalla droga, tutti quegli universi alternativi non fanno che complicare un bel po’ il lavoro.
«E allora che mi dici di Sherlock Holmes? Ehi, quello si faceva di coca in continuazione, gli serviva per risolvere i casi.»
«Vero, ma… non è mai esistito!»
«Cosa? Sherlock Holmes era…»
«È un personaggio inventato di una serie di racconti, Doc.»
«Macch… No-o. No, esiste eccome. C’è anche l’indirizzo dove abita, a Londra. Cioè, forse adesso non più, anni fa… ormai deve essere morto.» (2) 

Un capitolo del romanzo V. è dedicato a uno strano popolo africano sterminato nel 1904 dai tedeschi. Le vicende sono trattate come se si trattasse di finzione romanzesca, ma se si seguono gli indizi disseminati qua e là, ci si accorge che Pynchon ha riportato alla luce la vera (e tragica) vicenda degli Herero, ricostruita con meticolosa cura e grande intensità emotiva. Lo scrittore statunitense esplora le pieghe della storia per raccontare vicende dimenticate, incarnando quella che i critici chiamano “poetica del preterito”; con questo stile, Pynchon sfida una cultura di massa che venera i vincitori, i ricchi e gli uomini di successo – contrapponendole una celebrazione più dimessa degli ultimi, dei perdenti e dei sommersi.

Giuseppe Salzano l’ha definito:

un marginato che si aggira per le discariche della letteratura collezionando articoli di riviste scientifiche, bollettini militari, ricette mediche, sceneggiature rifiutate da Hollywood, copioni teatrali dimenticati, rimasugli di antiche leggende e vecchi stralci di giornale, restituendocele nella grandiosità delle sue pagine. (3) 

Un gusto che Joshua Held cattura in questa divertente elaborazione grafica: (4) 

Immagine riprodotta per gentile concessione di Joshua Held.


Note

1. Giuseppe Salzano, “L’arcobaleno della gravità (T.Pynchon)” in Letteratu (blog), 8.9.2011.

2. Thomas Pynchon, Vizio di forma, Giulio Einaudi Editore, Torino 2011 (traduzione di Massimo Bocchiola).

3. Giuseppe Salzano, op. cit.

4. Grazie a Massimo Manca per la segnalazione.

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