La prima vignetta ritrae Ciccio che vaga tra alcuni stand alimentari. L’amico Wolf Bukowski vi coglie un’istantanea dell’Expo milanese.

Gli indizi gli danno ragione: il protagonista della storia pubblicata su Topolino N. 3107 si lamenta di aver esaurito il budget dopo soli dieci minuti. Tra i visitatori della kermesse l’esperienza è comune, ma non a lei fa riferimento il titolo del racconto: “Ciccio e l’esperienza magica” è la storia – piuttosto banale – di una disavventura avvenuta nel recinto di Expo; anche se in modo subliminale, il Grande Evento è l’ambientazione perfetta per una vicenda che parla di inettitudine, complicità nascoste e messa in scena di realtà illusorie.

Mentre passeggia intontito, Ciccio viene fermato da un prestigiatore alla ricerca di un compare: gli serve un complice per presentare un’illusione teatrale, e Ciccio accetta di prendere parte alla messa in scena; fingerà di passare di lì per caso ed entrerà in una cassa sul palcoscenico, azionando un meccanismo che lo farà sparire. La scelta, però, si rivelerà pessima: l’atmosfera magica dello spettacolo viene completamente rovinata da Ciccio, talmente maldestro da trasformare l’esibizione in un numero comico – svelando i trucchi senza accorgersene e causando un problema dopo l’altro. Al termine dello show, il mago è tentato di sfogare su Ciccio la sua rabbia, fino a rendersi conto che – in realtà – gli applausi non sono mancati: è stata la comicità del numero a determinarne il successo. L’esito dello spettacolo fa riflettere il mago: cercando di mettere a punto illusioni sofisticate, forse si è sbagliato; il pubblico preferisce una comicità più grezza, prendersi gioco dello spettatore coinvolto e sghignazzare per la banalità dei meccanismi che rendono possibile l’illusione.

Nella sua ingenuità, la storiella mette il dito in un dibattito che da tempo anima la comunità degli illusionisti. Nell’ultimo decennio Antonio Casanova ha raggiunto la notorietà televisiva interpretando – in modo consapevole – la parte di Ciccio. Presentati a Striscia la notizia, tutti i suoi giochi presentavano un tratto maldestro, tale da svelare sistematicamente il trucco utilizzato. La platea televisiva era stimolata a prendersi gioco dell’illusionista attraverso risate registrate nei punti giusti, che ne sottolineavano l’incorreggibile inabilità. “Ciccio e l’esperienza magica” mette in scena, in modo piuttosto fedele, l’episodio che segnò l’inizio della carriera di Casanova; l’illusionista di Ravenna scelse consapevolmente la figura del mago maldestro solo dopo essersi reso conto di non essere all’altezza di uno spettacolo di qualità e aver capito che il mercato non lo avrebbe penalizzato per l’inettitudine. Tale svolta avvenne in diretta televisiva il 31 dicembre 1998, quando a Torino – in occasione del Capodanno in piazza – tentò di far sparire una carrozza, fallendo miseramente e lasciando scorgere vistosamente il trucco.

L’idea di divulgare pubblicamente i trucchi del mestiere ha fatto inorridire generazioni di prestigiatori, raggiungendo il culmine nel biennio 1997-1998 con the Masked Magician: nascosto dietro lo pseudonimo (e una maschera che lo faceva somigliare a un cantante dei Kiss), Val Valentino si prestò per svelare – nel corso di quattro special televisivi – tutte le più note illusioni da palcoscenico. Diffusa in tutto il mondo, la trasmissione contribuì a spiegare quello che avveniva dietro le quinte degli spettacoli magici, creando il panico tra gli illusionisti e costringendoli a reinventare parte del loro repertorio per emanciparsi dai trucchi svelati in televisione.

Curiosamente, la stessa gelosia per i segreti è sconosciuta in ambito cinematografico, dove sempre più spesso i “contenuti speciali” dei DVD presentano lunghe spiegazioni di come si sono ottenuti artificialmente gli effetti più sorprendenti. Chi va al cinema è già abituato a vivere un’esperienza in due fasi: prima si gusta la storia così come viene raccontata, sospendendo l’incredulità ed esponendosi alla meraviglia dell’intreccio e dei colpi di scena; poi – accedendo ai “contenuti speciali” – si lascia accompagnare dietro le quinte, “smontando” gli effetti speciali e attingendo a una seconda meraviglia, dalla natura più tecnico-razionale. In nessun modo la seconda parte svilisce la prima, facendo appello separatamente ai due emisferi del cervello.

Nel corso dell’Ottocento molti illusionisti offrivano la stessa sequenza di stupori, dedicando la prima parte dello spettacolo a creare l’illusione della magia, la seconda a svelarne i meccanismi per celebrare i miracoli della scienza e della tecnologia. Tale pratica era duramente avversata da altri prestigiatori, secondo i quali spiegare pubblicamente i trucchi avrebbe in breve annientato l’arte teatrale dell’illusionismo, basata fondamentalmente sul segreto.

Oggi una certa corrente post-moderna teorizza (auspica?) la morte dell’incanto teatrale: abdicando al tentativo di creare l’illusione della magia, in un’epoca in cui tutto è già stato scritto, detto e visto, l’unica cosa che si può offrire al pubblico è il meccanismo, nella sua cruda verità; solo il trucco – e la sua eventuale genialità – può ancora destare sorpresa nel disincantato mondo contemporaneo. L’idea è in linea con le conclusioni della storia di Ciccio: un pubblico capace solo di ridere non potrà mai essere condotto sulle soglie di quello che – in un raptus estatico – l’illusionista inglese Derren Brown definiva “l’abisso urlante che si estende dove la comprensione non arriva […] ai confini della propria rappresentazione del mondo.” (1) 

Superare il post-moderno significa restituire incanto a ciò che l’ha perso e confidare nella possibilità di evocare l’illusione della magia, vincendo il canto delle sirene del mercato che premiano senza scrupoli sciatteria e pressapochismo. Ma perché non sia un banale ritorno al passato, tale sforzo va coniugato con un’equilibrata condivisione con il pubblico dei segreti che consentono l’inganno.

Tra spiegare tutto e spiegare nulla c’è una terza via, scivolosa e piena di trabocchetti, che mira a creare un pubblico aperto all’incanto e al disincanto allo stesso tempo. Il modello ce lo offre l’impresario da circo P. T. Barnum, nella brillante analisi di Kembrew McLeod:

Le messe in scena di P. T. Barnum erano popolari perché aiutavano gli spettatori a orientarsi in un mercato capitalistico sregolato: pubblicità ingannevoli, frodi immobiliari e tutto il resto. Il biografo di Barnum, Neil Harris, fa notare che molti di coloro che acquistavano il biglietto per vedere le sue meraviglie erano perfettamente consapevoli di esporsi all’inganno. Gran parte del divertimento derivava proprio dall’attività di analisi e decostruzione dell’illusione. “Il pubblico si dispone a essere divertito”, spiegava lo showman, “anche nei momenti in cui è ben conscio di essere ingannato.” L’intrattenimento offerto da Barnum funzionava come un elaborato gioco discorsivo che incoraggiava la gente a discutere vivacemente di temi sociali, tecnologici e delle trasformazioni economiche che stavano avvenendo in America. Gli spettatori si allenavano a distinguere verità e menzogne nei vari prodigi messi in scena da Barnum, capacità che era diventata molto utile nella vita quotidiana. Ma nonostante egli dichiarasse apertamente di voler contribuire ad aguzzare l’ingegno del pubblico, [...] in realtà questo aspetto era solo un effetto collaterale di un’attività mirata al profitto. Da questo punto di vista, Barnum si colloca da qualche parte tra il truffatore, il burlone e il furfante – incarnando una figura il cui spirito è vivo come non mai sui media contemporanei e nel panorama dello show business. (2) 


Note

1. Derren Brown cit. in Mariano Tomatis, Te lo leggo nella mente, Sperling & Kupfer, Milano 2013.

2. Kembrew McLeod, Pranksters. Making Mischief in the Modern World, NYU Press, New York 2014, p. 20.

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