Di cosa si lamentano gli illusionisti del XXI secolo? Tra i motivi di disagio più diffusi spicca lo stupro dell’arte magica da parte della televisione: trasmissioni e talent show vincolano le routine magiche snaturandone tempi e modi, piegano l’illusionismo alle logiche dell’audience e lo svuotano di qualunque carica eversiva. Chi non è funzionale alle regole del mercato è fuori. Orde di giovani maghi mirano all’ingaggio televisivo, e i pochi che entrano nel meccanismo ne vengono stritolati, scoprendo sulla propria carne quanto era crudele il lato in ombra del loro sogno.

Provare un senso di nausea verso tali prospettive è un segnale incoraggiante: esso dimostra che, seppur sopita, sopravvive la voglia di lavorare per una magia diversa, ribelle ai mercanti e ai papponi. Nell’Italia dell’Ottocento, gli Scapigliati erano spinti dallo stesso fuoco. Come la televisione odierna, la cultura tradizionale moderata e borghese normalizzava ogni estro, vincolando gli artisti a raccontare storie che non disturbassero i potenti e lo status quo. Puntando un faro sui risvolti più crudi della realtà, gli Scapigliati usavano la penna per far esplodere le contraddizioni, smontare le frottole dei potenti e scandalizzare i benpensanti. Uno di loro, Carlo Dossi, nel 1880 si occupò di magia.

Wally Wood, “The Mad Magician”, Haunt of Fear #15(1), ~1950.

Martino, il suo “mago”, abitava una casa le cui persiane erano sempre chiuse. Nessuno in paese lo conosceva. Il poco che si sapeva di lui era frutto di macabre dicerie. Si favoleggiava di una testa mozzata conservata sul camino, alambicchi e oscuri riti che coinvolgevano croci di legno. Ogni giorno il mago scendeva in strada e i bambini fuggivano terrorizzati. Eppure Martino si limitava a comprare del pane e una fetta di manzo per il pasto quotidiano. Chi si nascondeva dietro quel viso pieno di rughe? Un mostro necrofilo in piena attività o un triste ciarlatano ormai in pensione?

Ma a Dossi non interessa risolvere l’ambiguità. Egli ci racconta di un mago bambino, ossessionato dall’idea della morte; adolescente, affascinato all’idea di suicidarsi giocando a Blue Whale; trentenne, in preda alla più cupa depressione. La ricerca di un sollievo negli studi fallisce: sui libri di medicina scopre quanto sia fragile il suo corpo e quante malattie incombano su di lui.

Nel sesso trova uno spiraglio di luce, seppur breve: la “biondissima Giulia” muore durante un tragico amplesso. Abbagliato da quel barlume di vita, il mago si mette a cercare la formula dell’immortalità.

Invano l’uomo trascorre i successivi vent’anni (“vent’anni di morte”, scrive Dossi) a caccia dell’incantesimo cruciale. Le forze gli vengono meno, la barba si fa grigia e le imposte della casa si chiudono. Dossi sembra vederlo che ansima

a fatica, mezzo seduto su di un cadavere spaccato, a interrogare: «Morte, che sei?»“.

Rifiutando al contempo la vita e la morte, Martino prega Dio (nel quale, peraltro, non crede) di renderlo cretino. A ucciderlo sarà lo strumento più letale per un mago: lo specchio. La visione di sé e del proprio Ego è insostenibile. L’uomo urla con tale violenza da farsi sentire in strada, e un prete fa in tempo ad accorrere per stringergli una mano.

Martino arretrò con terrore, come tòcca una biscia; diede nel letto, cadde entro la stretta...
E in quella, per paura di morte, morì. (1) 

Fotogramma dal film The Mad Magician (1954).

Difficile immaginare Martino in prima serata su Canale 5. Questo rende la sua storia uno spazio prezioso da difendere.

Oggi, per diventare maghi, non basta più cercare maestri (o tutorial) che insegnino perizia tecnica e storytelling: abbiamo bisogno di poeti maledetti, che fanno a pezzi il mito dell’Illusionista ombelicale e tutto-d’un-pezzo. Raccontando senza sconti le crude vicende di Martino, Carlo Dossi porta a galla le stesse miserie nascoste dietro le nostre vite; le vite di tutti, anche quelle patinate e piene di lustrini dei nostri beniamini.

Distrutti specchi e apparecchi televisivi, un’eccitante alternativa si profila all’orizzonte. Il “nuovo” illusionista è un mago maledetto dai media, che ne respingono il respiro comunitario e altruistico. Ribelle alle logiche del mercato, il mago maledetto rifiuta di essere ridotto a un codice a barre. Non misura il proprio successo sul denaro accumulato ma sugli occhi di chi gli stringe la mano alla fine di uno spettacolo. Pienamente umano, non si vergogna di nutrire dubbi e attraversare momenti di malinconia. È consapevole che da grandi poteri derivano grandi responsabilità e non usa la propria arte per ingannare. La sua nuova magia emancipa attraverso la Meraviglia.


Note

1. Il racconto “Il mago” è tratto da Carlo Dossi, “Goccie d’inchiostro” (1880) ora in Opere di Carlo Dossi, Treves, Milano 1910, pp. 181 e segg. Ringrazio Paola Roccella per la segnalazione.

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