Sabato 5 luglio 2025 h. 17.10 prenderò parte al festival letterario L’Isola delle Storie con Maura Gancitano e Marina Pierri: insieme proporremo alcuni esercizi di meraviglia durante un incontro intitolato a “La meraviglia della magia”.

Non è un caso che tutto questo accada nel cuore della Barbagia, in una terra incisa dalla memoria e dal mito. A Gavoi, tra le rocce della necropoli di Uniai, si trovano le domus de janas – letteralmente “case delle fate”.

Per capire di cosa si trattasse, alla fine dell’Ottocento Tullo Bazzi si era rivolto a un abitante del luogo:

- Cosa sono? Sono case?
- No, sono buchi.
- Buchi? Dove?
- Nel monte.
- Saranno grotte.
- Mai più: ci s’entra carponi.
- Allora son piccole.
- Eh, si capisce! [...]
- C’è pericolo?
- Ma... non c’è mai entrato nessuno.
- Perché?
- Perché non si sa dove vadano a finire.
- E dite, che sono?
- Sas domo de janas, o sas birghines, comente cheret(1) 

Domus de janas. Illustrazione tratta da Gino Bottiglioni, Leggende e tradizioni di Sardegna, Leo S. Olschki Editeur, Ginevra 1922, tra le pp. 86 e 87 (link).

Per chi si occupa archeologia, si tratta di tombe scavate nella pietra, ma per la tradizione locale sono portali ancestrali, buchi nella realtà, dimore di esseri minuscoli e inafferrabili che gli abitanti della Barbagia chiamavano “janas” o “birghines”. Rintracciandone le storie tra le pieghe del folklore, nel 1922 Gino Bottiglioni le descrisse come fate piccole, autosufficienti e di genere indeterminato:

Non si potevano distinguere i maschi dalle femmine, perchè gli individui dei due sessi esteriormente avevano un’identica figura piccola e tozza e vestivano ugualmente. (2) 

Una testimonianza arcaica della fluidità di genere, ma anche della sua radicale indomabilità. Fieramente amorali, le janas vivevano fuori dal tempo umano, nelle profondità della terra, rifiutando di rientrare in una forma stabilita.

Sas birghines. Illustrazione tratta da Tullo Bazzi, In Barbagia, Tipografia Messaggi, Treviglio 1889, tra le pp. 66 e 67.

A Tortolì si diceva che:

le janas avevano delle mammelle lunghissime che gettavano dietro le spalle […] sia per allattare i bambini che portavano dentro a delle ceste legate sulla schiena, sia perché non toccassero terra, quando lavoravano. (3) 

E tessevano, cucivano, scavavano da sole le loro case con unghie d’acciaio. Autonome. Indipendenti. Selvatiche. Un’iconografia potente, a metà tra la strega, la madre, la vampira e la sciamana, in cui la gestazione non era dolcezza, ma forza e trasformazione. Una genealogia di corpi non conformi, radicali, capaci di generare senza chiedere il permesso, di trasformarsi e trasformare – incarnando ogni volta un’eccezione vivente, un errore fertile nel codice del mondo.

Secondo le voci popolari, avevano anche il dono della profezia:

Determinavano il destino degli uomini […] tant’è vero che di una persona fortunata o sfortunata si suol dire: est affadada beni (o mali) de is janas. (4) 

Essere “affidata” a una janas significa ricevere una sorte altra, sfuggire alle leggi degli esseri umani e trovarsi sotto la cura (o la minaccia) di una stirpe sotterranea e selvaggia.

Secondo le voci popolari, le janas – generazione dopo generazione – si sarebbero fatte sempre più piccole,

fino a confondersi coi vermi della terra. (5) 

Nel cuore della Barbagia, le janas si sono fatte impercettibili per continuare a operare al riparo dallo sguardo normativo. Hanno scelto la via della miniaturizzazione magica – non per scomparire, ma per resistere. Più piccole, più inafferrabili. Più silenziose, più radicali. Rifugiate nella fenditura, continuano a scavare e tessere, a partorire e predire, nei gesti minimi, nei margini, nelle cuciture del reale. Sopravvivono come codice sorgente di una magia transfemminista, in grado di fare e disfare mondi.

Ci vediamo a Gavoi, nel cuore della Barbagia, per evocare insieme la loro meraviglia – e forse riconoscerci come figlie e figli delle minuscole abitanti delle domus. Abbracciando una forma di cura che non chiede riconoscimento ma si esprime nei gesti quotidiani e minimi; una corporeità che sfugge alle norme binarie; un amore che si rigenera da sé, senza chiedere permesso. Perché come insegnava bell hooks, ogni gesto sotterraneo può diventare atto di liberazione.


Note

1. Tullo Bazzi, In Barbagia, Tipografia Messaggi, Treviglio 1889, p. 64.

2. Gino Bottiglioni, Leggende e tradizioni di Sardegna, Leo S. Olschki Editeur, Ginevra 1922, p. 6.

3. Bottiglioni 1922, p. 6.

4. Bottiglioni 1922, p. 7.

5. Bottiglioni 1922, p. 8.

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