Il codice Dell'Oro
/ Matilde Dell’Oro Hermil
Sul Rocciamelone. Racconto per bambini

Era un bellissimo mattino d’agosto, quando nelle città fa tanto caldo, l’aria è pesante, le strade sembrano forni e la montagna invece sembra un paradiso; solamente che, come quello, è difficile ad arrivarvi, ma poi tanto delizioso a godere.
La montagna, a vederla dal basso e da lontano, sembra una gran dama coi rigonfi e con lo strascico di velluto verde, – e solo ne valli e i fianchi; – una mantellina sulle spalle, – e sono i boschi; – una capigliatura abbondante un po’ arruffata, – e sono le ultime rocce senza vegetazione; – infine un candido cappellino piumato, – cioè le nevi e i ghiacciai. Bene spesso v’è ancora un lungo velo svolazzante al vento, che è una bella nuvola argentea e capricciosa.
In quel bel mattino andavamo su bel bello, passo passo, ora passando sotto i folti castagni, ora girando una rupe, io con la maestra di Mompantero; andavamo incontro al fresco, al buon appetito, al buon latte: e anche per vedere i soldati alpini che portavano sulle spalle la grande statua della Madonna.
La portavano un pezzo per volta con grosse funi e grosse barelle su su fino alla cima d’un monte grande e bello, che si chiama Rocciamelone.

Oh se li aveste veduti quei buoni e svelti soldati passare così carichi per un sentiero stretto stretto, e alto alto da far paura solo a guardarlo; tutti sudati, sopra la neve dura dell’anno passato, con pericolo di scivolare e andar a cadere fino in fondo d’un brutto vallone dove arrivano appena solo gli uccellacci.
Ed ora la Madonna c’è arrivata tutta lassù e composta sulla roccia che pare guardi tutt’intorno, e con le braccia aperte sembra che inviti e voglia abbracciarci, incoraggiarci e proteggerci tutti.
Quella mattina dunque, prima di giungere anche noi lassù, sentendoci già stanche, cercavamo una casetta di quel paese per riposare un momento e fare colazione.
Avevamo visto da lontano un mucchio di tetti neri sotto gli alberi e poi non sapevamo trovarle quelle case.
Camminando, avevamo girato intorno ad esse, nascoste da alberi e da rocce nere come esse e grandi più di esse, senza averle viste.
E di gente per la strada nessuno, erano tutti a lavorare. Se non fosse stato il rumore del vento e del torrente, sarebbe parsa una gran tela, un gran scenario dipinto.
Finalmente vedemmo scendere per la strada ripida e sassosa una ragazzetta sola con un pentolino pieno di latte e coi piedini nudi e scuri. Veniva lesta sbambettando d’una pietra all’altra come se scherzasse su un morbido tappeto.
Noi la guardavamo sorridendole; essa allentò quel suo passo saltellante, abbassò la testina arruffata e disse un po’ confusa:
- Riverisco, signora maestra.
Oh una sua allieva! – dissi io, lieta di avere trovato una conoscenza; – avrà qui vicino la sua casa.
– Sono tutte mie allieve, ne ho tante e si assomigliano tanto; hanno tutte parecchie case e stanno un po’ dappertutto.
Sloggiano spesso con tutte le robe sopra il somarello e nelle gerle.
Vieni un po’ vicino e alza la testa: ah sei la Zita.
– Sì, signora maestra.
– E di dove vieni ?
– Da Sant’Anna.
– Dove vai?
– Qui sotto a casa, porto il latte per condire la minestra.
– Non c’ è latte qui a questa borgata?
– Nossignora, adesso le vacche sono tutte lassù in pastura con mia sorella Ana.
– E tua mamma?
– È qui sotto col mio fratello più piccolo.
– E non ti fai male ai piedi? Così scalza per questa brutta strada?
La Zita ci guardò stupita di questa tenerezza nuova per lei; poi scrollò le spalle in un certo suo modo che poi le vidi fare spesso, e col quale voleva dire molte cose; ma, in vero, parlava poco, a parole brevi. Ora voleva dire:
– Ci sono avvezza io! – Disse poi: – Così, così; con le scarpe fa ancora più male, le porto la festa, e a scuola, e a Susa, e quando c’è la fiocca (neve).
Infatti hanno certi scarponi che ammaccherebbero l’unghione dei buoi.
– E tuo padre?

– Lui taglia il fieno laggiù, poi viene su la sera con Trumìa a mangiar la minestra e dormire. Trumìa (Bartolomeo) taglia il grano là; – e indicò con la mano un poggio al di là del vallone del torrente.
– Chi è Trumìa?
– Mio fratello grande.
– E tua madre sta sempre qui?
– Sta solamente qualche giorno mentre c’è lavoro là, poi andiamo a un’altra casa più lontana; fa erba, lava alla bealera (1) e leva le patate dalla terra.
– E tu porti giù il latte e poi ? vai a ruzzolare e dormire sull’erba?
– Nossignora; io guerno (governo, custodisco) Megno (Domenico) e poi torno su a prendere il burro per portare domani a Susa.
– Chi è Megno?
– Mio fratello più piccolo.
E vi aggiunse una scrollatina di spalle, che voleva dire: grulla, non sai niente e cominci a seccarmi.
– E quanto ci metti per venire da Sant’Anna a qui?
La Zita mi guardò e crollò le spalle: – così, così.
– La maestra spiegò meglio: noi ci metteremmo due ore, ma quella roba lì se ne viene in men della metà : il loro orologio è il sole e il canto del gallo.
– Zita ci conduci ora a casa tua?
– Si, signora maestra; – e diede un sospirone che voleva dire: – è brutta la mia casa; – poi una crollatina di spalle che voleva dire: – che farci? pazienza, io non sono signora come voi.
Della sua maestra non aveva ormai più soggezione; la guardava coi suoi begli occhi dolci e scuri come un frutto di mora. Anche la faccina era bella ma tutta macchiettata di lentiggini sotto un arruffio di capelli neri.
Erano i baci del sole e le carezze del vento che vi avevano lasciato il segno, ma sotto a questo si vedeva il buon sangue sano e forte e anche molta intelligenza e buona volontà.
La Zita, – la chiameremo ora sempre così, – non aveva governante che la conducesse a prender aria in piazza d’armi, nè cerchio, nè bambola, nè compagni per giocare, ma non era con ciò infelice come tanti bimbi che hanno fame e vedono intorno tante belle e buone cose per gli altri.
La sua trottata doppia ogni giorno per vento e sole e pioggia anche se capita, serviva tanto alla sua famiglia con le sue gambette nude, smilze, color di rame, ma non brutte; oh no, eran dritte, lunghe e ben fatte.
Si sentiva utiie, quasi necessaria e ciò la faceva contenta e forte.

Tornammo indietro con lei alla sua casa; era la sola abitata in quel momento. Vi entrammo. Era proprio alquanto brutta; e più si va in alto e più sono rozze, causa la difficoltà per farle. I muri sono tutti a buchi i quali servono di mensole e di stipi. – Vi si conficcano bastoni ai quali si appendono le vesti, il paiuolo, gli involti di biancheria e gli attrezzi della terra.
In un angolo c’è del fieno per dormire. Il pavimento mal connesso e traballante lascia vedere di sotto la stalla, dove stanno il somarello e le mucche che scuotono i loro sonagli; ma i contadini dormono lo stesso; sono sempre così stanchi!
La mamma della Zita giunse dal lavare col piccolo Megno in collo e il secchio e le robe al braccio.
Depose il bambino sul fieno, si affacendò a sgombrare un panchetto a tre piedi e un cippo piano per farci sedere, riattizzò il fuoco sul quale la minestra già cotta aspettava il condimento, vi versò solamente un poco del latte portato dalla Zita e il resto l’offrì a noi.
Era una minestra mista di patate, pasta, riso e castagne ; e voleva offrircene scusandosi di non avere altro ; nemmeno toma (cacio fresco) tutto si vende per fare soldi e mantenere il sale alla famiglia, – dicono così per dire il più necessario.
Noi facemmo il nostro caffè, ne demmo a lei, che si schermiva dall’accettare.
La Zita anch’essa fece le sue cerimonie per accettare della cioccolata.
– Come, non ti piace?
– Sissignora.
– E perchè? Hai paura che non sia pulita?
– Nossignora, ma non ne avrete poi più per la vostra cena.
Mangiammo con gran diletto in rozze scodelle di terraglia scura, ma lucenti, e in cucchiai di legno di bosso o mortella, e la buona Talina (Caterina) che, così si chiamava, tutta confusa si scusava: abbiamo tante case e poca roba; eppur quando si cambia e che si deve caricare è ancora troppa.
La Zita dal suo angolo accompagnava i nostri discorsi con le sue alzate di spalle che approvavano o correggevano; oramai avevamo imparato a interpretarle; quando la Talina la rimproverò d’avere tardato; alzò le spalle per dire:
– Eh! è lunga la strada.
E poi guardò noi, e voleva dire: – mi hanno fermata.
Quando accennammo a partire, la Talina domandò:
–Vanno in punta? (s’intende sempre la punta di Rocciamelone).
Allora vadano pure presto, la strada è lunga; – tu Zita accompagnale e mostra loro le scorciatoie più belle, e porta il panierino delle signore.
– Ma e voi, buona donna, e Megno, e la capra, e la casa?
– Chiudo la casa e mi porta tutto al campo e ciò che non si fa oggi faremo domani, se Dio ci dà vita e salute.
E così la Zita fece un buon tratto di strada con noi tutta contenta e lesta, e ci raccontò molte cose con le sue risposte brevi, e le sue alzate di spalle e dei così così, e onorava già anche me di amicizia e confidenza.
Le domandai:
– E a scuola sei andata?
– Sissignora.
– Allora non portavi il latte e non andavi su e giù da Sant’Anna.
– Sissignora.
– E come facevi a studiare?
– Così.
La maestra rispose per lei:
– In questo paese bisogna sapere aggiustarsi tra il programma, la disciplina, l’orario e le usanze e la vita del paese, bisogna prenderle quando vengono, se no, non vengono affatto, le perderei a una a una e per gli esami non avrei più allieve, bisogna che spesso ripeta le lezioni per una sola e pregarla che venga ancora.
Vengono la mattina dall’alta montagna con la vesticciuola che si son messe da sè tutta di traverso, e a volte ancora aperta sul dosso, e io attacco anche bottoni e anche do qualche punto all’ingrosso. Hanno in saccoccia un tozzo di pan nero duro, oppure due patate bollite e rifredde per mezzogiorno.
– E le loro mamme, e le sorelle?
– All’alba sono già tutte partite pei campi.
–E la casa?
–Resta aperta o con la chiave nella toppa, o al più nascosta in un buco che tutti sanno, ma non c’è pericolo che niuno tocchi.
Durante questo discorso la Zita aveva fatte molte scrollate e detti molti così così.
La maestra seguitava: io non finisco mai di dare esami e spesso devo tardare a chiudere la scuola, per lasciarvi fare il lavoro e studiare lì dentro, giacchè alle loro case non c’è nè posto, nè tempo; per esempio appunto qui la Zita con un’altra bambina l’ho aspettata due settimane e poi ho ripetuto loro le lezioni e dato l’esame più tardi: – è vero, Zita?
–Sì, signora maestra.
– Non disse altro, ma la luce, che le raggiava dagli occhi esprimeva la gioia, la riconoscenza e la volenterosità.
Ad uno svolto il sentiero si faceva a un tratto stretto stretto; passava a traverso d’una roccia alta e liscia; nel punto più difficile v’era una croce di legno piantata sul ciglio nella pietra dura.
Domandammo:
– Che cos’è? è accaduta una disgrazia qui?
La Zita si fece seria:
– Sissignora, è caduta mia cugina Nin (Maddalena) la capra le ha dato un urtone e l’ha fatta andar giù ed è morta; e poi è caduto anchè Pin della Cia, che correva e gli altri volevano dargli (le busse). Zita questa volta aveva fatto il suo discorso più lungo, tutto d’un fiato, poi tacque ad un tratto.
–E tu torni sempre a passare di qui? e non hai paura?
Con la testa fece segno di sì e poi di no. – E allora? e se caschi anche tu?
La Zita si strinse nelle spalle, – così, – poi: se Dio vuole; – e con le spallucce pareva aggiungere: – è inutile, succederà se Dio vorrà.
E mentre noi passavamo attente, zitte, con un po’ di tremarella, guardando dalla parte della roccia per non vedere il precipizio, e avere la vertigine, Zita coi suoi piedini nudi, che parevano afferrare la riva, sgattaiolò lesta innanzi e poi si voltò ad aspettarci dando un lungo sospiro di soddisfazione quando ci vide al largo.
Allora le tornò lo scilinguagnolo e disse:
– Adesso non si cade più tanto presto.
– E perchè?
– C’è la Madonna in punta che slarga le braccia e para.
– Ci sei andata già tu in punta?
– Sissignora, quattro volte.
– Quattro volte! e ci tornerai?
– Sissignora, – vado nove volte.
Ora va, Zita, torna a casa tua, va, basta, la tua mamma ha bisogno di te, va.
La Zita sostò con la mano nei capelli non osando insistere per proseguire, nè volendo lasciarci subito.
– Va, va, da’ ancora il buon giorno a tua mamma.
– Sissignora, buon giorno a signora maestra e compagnia, – aggiunse questa volta e scomparve.
La giornata per noi fu faticosa, ma bellissima.
Non sapevamo staccarci da quell’altezza, da quella vetta incomparabile, tanto che, avevamo da poco cominciato a scendere, quando ci colse quasi all’improvviso la sera.
Lassù la luce è più viva e dura più a lungo.
Pensammo che fra poco sarebbe sorta la luna e continuammo a scendere leste e silenziose.
Senza più pensarci infilammo di nuovo il sentiero di scorciatoia fatto al mattino con la Zita. Giunte al passo stretto in cima alla rupe alta e rotonda scivolante sul ciglio si fece anche più scuro. Una grossa nube nera tutta fatta come montoni accavallati copriva la luna, e sortì anche un vento forte che gonfiava le vesti e spingeva.
Non osammo proseguire.
Tornare indietro era lo stesso; avevamo già fatto mezza la parte brutta e pericolosa.
Stavamo lì come inchiodate, dandoci la mano, stando una dietro l’altra, tentando aggrapparci alla parete che non dava presa alcuna, tant’era liscia, anzi pareva ci spingesse via.
Cominciavamo a pensare a tante brutte cose; il precipizio pareva che ci tirasse giù, benchè fosse scuro, ci pareva di vedere girare la montagna.
Invocammo la Madonna.
In quel momento la casa povera e bucata della Zita ci pareva un paradiso; oh potere arrivare almeno fin lì! come si starebbe bene stanotte!
Inconsciamente, macchinalmente la chiamammo, come se da casa sua, ancora lontana, ella potesse udirci e venire a quell’ora! – Zita! –
Ed ecco che, oh miracolo! udimmo:
– Sissignora maestra e compagnia!
E in pari tempo dei passi e delle voci d’uomini e la luce d’ una lanterna che, volto l’ angolo della brutta rupe, si trovarono in faccia a noi.
Zita alzò tutte e due le mani al cielo, poi le batté palma a palma al disopra della sua testa, e diede un gran sospirone di sollievo, mandava luce anch’essa dagli occhi e dai bei dentini bianchi.
Poi si diede a scrollare a lungo e in fretta le spalle ripetendo tante volte:
– Così, così.
Stava in bilico sulla sponda terribile coi piedini nervosi ed arcuati, i capelli e la gonnellina al vento tra il nero del vuoto e il lume rossastro della lanterna, somigliava un piccolo arcangelo assistente al salvataggio.
Quei due uomini Batista e Trumìa, il padre e il fratello di Zita, ci condussero per mano una alla volta fuori di pericolo.
Era stata lei, la povera bambina, la nostra salvatrice!
Giunte a casa sua sostamrno. La Talina che ci attendeva un po’ sgomenta anch’essa per tutti insieme, ci raccontò come la Zita, al suo ritorno dalla seconda corsa a Sant’Anna col burro pel mercato di Susa, era stata ad aspettarci al bivio e non vedendoci venire, era stata presa da inquietudine e presentimento.
Era corsa a casa piangendo:
– Mamma, mamma, la maestra e quella Signora vanno a cadere alla Croce.
Santa Maria! avranno paura! non vedono la strada.
E c’era infatti da temere; l’oscurità, la stanchezza, la vertigine, – tanto che i due uomini s’erano decisi a venirci a cercare al supposto luogo.
Ed erano davvero giunti in tempo.
La paura e la vertigine è contagiosa, è improvvisa, il pericolo c’era davvero.
Abbracciammo stretto e baciammo tante volte la gentile, seria e affettuosa creatura.
– Oh brava, e cara! come ti è venuto in mente che noi eravamo lì a chiamarti?
E lei cogli occhi lucidi si stringe ancora nelle spalle e dice: – così, così: – ma poi soggiunge: ho detto Ave Maria.
Ne’, Zita, ora che la Madonna ci ha fatto la grazia, faremo fare un «un voto» (2) (quadretto che rappresenti il pericolo scampato), e Zita lo porterà in punta e lo appenderà, in una di quelle nove volte che conta di andare a Rocciamelone. (3)
Fonte Matilde Dell’Oro Hermil, Sul Rocciamelone. Racconto per fanciulli, Remo Sandron Editore, Milano/Palermo, 1902. Illustrazioni di C. Calazettes.
Note
1. Vocabolo del dialetto piemontese: specie di stagno, laghetto, numerosi nelle regioni alpine.
2. Sic. Si intende ex voto.
3. Si ringrazia Roberto Revello per aver condiviso il racconto.