Nel 1968, dopo l’assassinio di Martin Luther King, una coppia mista con figli afrodiscendenti scrisse a Charles M. Schulz chiedendo di introdurre nei Peanuts un personaggio che potesse rappresentarli.

Il fumettista esitò: temeva l’accusa di wokeism prima che la parola diventasse una clava nelle mani di Vannacci. Alla fine accettò: nacque così Franklin, l’unica persona nera nel fumetto.

Educato, mite e privo di tratti memorabili, Franklin riusciva a essere incolore a dispetto del colore della pelle: un’inclusione possibile solo a condizione di non disturbare l’equilibrio narrativo.
Il 30 ottobre 2018, nel giftshop della mostra londinese Good Grief, Charlie Brown!, mi sono trovato davanti a una scena difficile da dimenticare: le t-shirt degli altri personaggi (lui non c’era) costavano 40 sterline, mentre la spilletta di Franklin (unico soggetto disponibile) era in vendita a 1 sterlina.

Giftshop di Good Grief, Charlie Brown!, Londra 30.10.2018.

Giftshop di Good Grief, Charlie Brown!, Londra 30.10.2018.
Una sproporzione che è anche un lapsus involontario: l’Occidente bianco continua a ribadire una gerarchia razziale anche quando proclama di averla superata.

Nel suo libro L’unica persona nera nella stanza (66thand2nd, 2021), Nadeesha Uyangoda smonta la favola dell’innocenza italiana: un Paese pronto a vedere l’oppressione quando è altrove, incapace di riconoscerla quando passa attraverso la propria storia e quotidianità. Cresciuta a Milano e originaria dello Sri Lanka, l’autrice dà voce alla moltitudine di Franklin che abitano l’Italia d’oggi.
Il saggio propone, tra l’altro, una serie di pratiche con cui le persone bianche possono agire da alleate: ascoltare senza tradurre l’esperienza altrui in termini propri, intervenire quando l’oppressione si manifesta, riconoscere i propri privilegi, rinunciare al conforto dell’innocenza e assumersi la responsabilità di guardare ciò che si preferisce non vedere.

Nadeesha Uyangoda
Restituire voce e colore a Franklin significa riconoscere che non c’è racconto possibile senza chi può parlarne in prima persona. Senza quelle voci, la cosiddetta “inclusione” è solo una scena apparecchiata per non cambiare nulla.
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