Roma, circoscrizione V, seggio 420. Se mi affacciassi sull’aula, assisterei a uno spettacolo insolito. L’uomo che timbra le schede lo sta facendo in un modo strano. Col timbro stretto nel pugno, ha il movimento ritmato che ci si aspetterebbe: un colpo per inchiostrarlo, uno per bollare la scheda e poi – ed è qui l’assurdo – un terzo sul corpo. Invece del classico unò-due, unò-due, il tempo è ternario e i colpi scandiscono zum-pà-pà, zum-pà-pà. La t-shirt dell’addetto, di un bianco candido all’inizio della procedura, si sta coprendo di un cerchio tondo alla volta. Forzando un po’ la regola che vieta riprese, c’è chi immortala da lontano la scena.

Se ne ignorassi il contesto, potrei scambiare la foto per un fermo immagine da Brazil (1985), l’incubo distopico di Terry Gilliam sulla burocrazia e i suoi devastanti effetti psichici. Siamo di fronte a un pazzo o dietro al gesto c’è del metodo? Per scoprirlo, l’ho chiesto direttamente all’uomo autoinchiostrante: Matteo Locci è un architetto e artista romano, co-fondatore del collettivo ATI suffix.

Matteo Locci

Collage tratto da Matteo Locci, Critical Conjuring, 2020.

Leggi “Illusionismo critico per scatenare il contro-sortilegio” sul blog Not, la mia intervista a Matteo Locci, Natalia Agati, Francesco Restuccia e Maria Rocco.

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