Nel suo saggio Can Magic be Art?, pubblicato in coda al suo libro Absolute Magic (1) , Derren Brown si interroga sullo status artistico dell’illusionismo. Prendendo spunto dalla difficoltà di fissare una definizione di “arte” che includa al contempo la Cappella Sistina, i rumori di John Cage e l’orinatoio di Marcel Duchamp, il mentalista inglese scrive:

Come artisti magici, il nostro compito è quello di rendere le nostre performance una sfida alle percezioni del nostro pubblico. L’effetto può anche essere minimo: di fronte alla Fountain di Duchamp, una persona vede soltanto un altro orinatoio, ma lo percepisce in modo diverso, e questo scostamento è frutto di una specifica funzione dell’arte. Allo stesso modo, un semplice cucchiaino sarà visto in modo diverso dopo aver assistito a un effetto di piegatura dei metalli, che renderà l’osservatore pensieroso e un po’ meno fiducioso del modo in cui vede le cose.

Il ruolo della magia sarebbe, dunque, lo stesso dell’arte: non quello di trasmettere una sterile emozione, ma di interferire attivamente con il modo di osservare il mondo.

Pochi illusionisti sono in grado di fare propria questa lezione, alla base dello splendido spettacolo Thinking in Person che Max Maven ha recentemente presentato in Italia. Il suo show si sviluppa intorno a una sfida: riuscirà a rendere interessante una domanda triviale – l’interrogativo se una moneta appena lanciata sia caduta sulla testa o sulla croce? Negli ultimi istanti dello spettacolo, e contro ogni aspettativa, il pubblico deve ammettere che il mentalista americano ha vinto la sua sfida. Per il modo in cui ha costruito l’attesa e l’intero show, quel singolo fatto attira su di sé ogni attenzione, e Max sorride sornione sussurrando: «Now you DO care!» (“Ora SÌ che vi interessa!”). In privato, Max spiega che l’intero “concept” dello spettacolo si può condensare in quel breve attimo finale:

Ho impiegato due ore per creare quei due secondi, e trent’anni per creare quelle due ore.

Quello che avviene prima è una teoria di effetti magici, intrecciata a riflessioni aneddotiche che mescolano ironia, sarcasmo, gusto del paradosso, ma anche immagini letterarie e filosofiche di grande suggestione, sullo stile di Jorge Luis Borges: dal teatro giapponese a un cenacolo di scrittori degli Anni Venti (2) , dagli scritti di Einstein ai pensieri del matematico Paul Erdős. Di quest’ultimo, ad esempio, Maven cita il concetto di “Libro”.

Secondo Erdős, in un luogo astratto del pensiero esisterebbe un libro (che lui chiama “il Libro”) contenente tutti i teoremi matematici, espressi nel modo più elegante possibile. Alcuni dei teoremi scoperti dall’uomo sono così perfetti da provenire certamente dal Libro. Altri sono troppo complicati, e si possono derivare dai teoremi del Libro, ma di certo non vi compaiono. Annota Maven:

Se, come me, accettate la premessa che il Libro esiste, è lecito supporre che esistano altri capitoli oltre a quello dedicato ai teoremi matematici. Forse c’è un capitolo dedicato alla lettura del pensiero. Se così fosse, quello che sto per mostrarvi potrebbe provenire dal Libro.

L’effetto che segue è di una straordinaria linearità, incarnando l’essenza minimal da sempre teorizzata dal mentalista americano. Fanno da contrappunto a tale semplicità i racconti ricercati e complessi, che Max introduce sempre con la stessa domanda: «Ricordate Pablo Picasso?», «Ricordate Wolfgang Ernst Pauli?», «Ricordate Alexander Woollcott?» (3)  I riferimenti sono tanti e tali da richiedere uno specifico disclaimer sul volantino distribuito all’ingresso del teatro, dove Max scrive:

Come sai, l’intera esibizione sarà in inglese e potrebbero esserci termini o riferimenti che non comprenderai. È importante che tu sappia che ciò è vero anche per il mio pubblico americano.

L’intero show è di una complessità impressionante: a chi non voglia fermarsi in superficie e voglia coglierne le sfumature, lo spettacolo richiede un’attenzione piuttosto serrata e un notevole impegno intellettuale, offrendo allo spettatore – attraverso salti concettuali e riferimenti che si sviluppano contemporaneamente su piani logici differenti (come il gioco sintattico iniziale sul suono, il significato e la tradizione dell’introduzione per eccellenza “Once Upon A Time...”) – la possibilità di smontarne la struttura per partecipare al gioco infinito dell’interpretazione.

Un’opera aperta lontana dallo stile pop di David Copperfield, più simile alle divagazioni filosofico-scientifiche dei racconti di Douglas Hofstadter e di Raymond Smullyan, con un profondo respiro borgesiano di fondo. Centro di gravità e ingrediente principale dello show è il senso del mistero, che per Maven è un ingrediente non strettamente necessario alla sopravvivenza, ma senza il quale forse non vale la pena di vivere; un gusto a cui il mentalista americano vuole educare il suo pubblico, presentando effetti magici inspiegabili, sviluppando inestricabili paradossi e conducendo chi lo osserva ai confini del modello del proprio mondo, per mostrargli il profondo abisso che si estende oltre.

Sbalestrato dall’esperienza, e desideroso di affrontare con maggiore calma una accurata esegesi dello spettacolo, non ho potuto che esprimere il mio punto di vista a Max attraverso poche parole imbarazzate; a proposito dello show, gli ho confessato: «I’m sorry: it doesn’t fit my brain!» (“Mi spiace, ma non mi entra del tutto nella testa.”) A differenza di come potrebbe apparire, era un commento entusiasta: volevo, infatti, sottolineare la straordinaria profondità dello show e la sua meravigliosa “sgangherabilità”, tipica delle opere aperte.

Il sottotitolo dello spettacolo mi riconcilia con l’impressione di essermi lasciato sfuggire qualche dettaglio importante, decisivo. An Evening of Knowing and Not-Knowing (“Una serata dedicata a ciò che è noto e ciò che è ignoto”).


Note

1. Derren Brown, Absolute Magic, H&R Magic Books, 2003, pp.215-246

2. L’Algonquin Round Table di New York

3. Maven confessa di aver tratto grande ispirazione da quest’ultimo, scrittore pungente e ironico che si autodefinitiva “a fabulous monster”, autore della celebre battuta: “Tutto ciò che mi piace davvero è immorale, illegale o ingrassa.”

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