Questo scambio di battute è tratto dall’intervista di John Lovick a Max Maven trasmessa nell’episodio 16 della serie Reel Magic.

John Lovick: Oggi il mentalismo è molto più popolare di 30 anni fa. Che cosa pensi, nel bene e nel male, del mentalismo?

Max Maven: Sono un fermo sostenitore della legge di Sturgeon (1) , secondo cui il 95% di qualsiasi cosa è merda. O forse era il 90%? Beh, in ogni caso, nel mentalismo è certamente il 95%. Il che significa un bel po’ di merda.

Al contempo, poiché c’è un 5% di cose buone, con l’aumento delle persone che vi si dedicano, l’ammontare di questa frazione è destinato a crescere in numero assoluto.

Credo che questo pensiero riassuma bene ciò che mi sembra positivo e ciò che mi pare negativo nel mentalismo.

Un aspetto che trovo veramente sorprendente è il numero di mentalisti moderni che non sentono il desiderio di conoscere ciò che li ha preceduti. Di conseguenza ci sono molti che continuano a reinventare la ruota. Ma, come dico spesso, se proprio vuoi reinventare la ruota, cerca almeno di farla rotonda.

John Lovick: Parli di “reinvenzioni”. Esiste ancora qualche novità nel mentalismo?

Max Maven: Qualcosa c’è. Le generazioni moderne fanno molto uso di ***, ma spesso questi stessi oggetti spostano l’attenzione di un performer da ciò che conta veramente in un effetto. In generale io non sono contro la creazione di gimmick sempre più potenti ed elaborati, ma bisogna tenere a mente che realizzare un martello sempre più ergonomico non garantisce affatto che, usandolo, verrà fuori un bel tavolo. Non è lo strumento a costruire un mobile. Allo stesso modo, concentrarsi su nuovi metodi non ci rende mentalisti migliori. Anche una volta che sai cosa sta pensando uno spettatore, è qui che inizia il lavoro duro: come rendere tutto ciò interessante, empatico? come sfruttare tale conoscenza per accompagnare lo spettatore in un simbolico viaggio con la tua guida?

John Lovick: Il mentalismo attira molti perché è diffusa l’idea che, tecnicamente, sia facile da fare. È davvero così?

Max Maven: Supponiamo di accettare la tua premessa, e che il mentalismo sia tecnicamente facile – come effettivamente è, in alcuni casi. Beh, allora la mia risposta è che tutto il resto è maledettamente difficile. A differenza di molte altre forme di intrattenimento, il mentalismo non ha molto da proporre al di fuori di sé: non ci sono belle assistenti o qualcuno che danza sullo sfondo, ci sei tu e basta. E quando non ci sono oggetti, non c’è una scenografia ricca, ma sei solo sul palco, beh: diventa estremamente difficile gestire la situazione. Come dico sempre, il mentalismo è la branca della magia più facile da fare… malamente.

John Lovick: C’è da sempre grande discussione intorno all’etica del mentalismo; è lecito interpretare la parte di chi possiede dei poteri o bisogna fare degli espliciti disclaimer per negarlo?

Max Maven: Uff… Sono così stufo di questa domanda. I disclaimer sono semplicemente inutili, perché non cambiano le opinioni di chi osserva, e si limitano a far piacere a chi pretende che vengano fatti. Negli anni Sessanta David Hoy si esibiva al Playboy Club con il nome di Doctor Faust, e apriva il suo show con questa frase: «Buonasera, signore e signori. Mi chiamo Doctor Faust e sono fasullo.»

Credo che non si possa concepire un disclaimer più diretto ed esplicito.

Bene, alla fine dei suoi spettacoli, la gente lo raggiungeva dicendogli: «Ok, hai dovuto dire quella cosa per ragioni legali, ma puoi dirmi dove si trova il cane che ho perduto?» Ci sono conferme empiriche del fatto che i disclaimer non funzionano. Sia chiaro: non sono contro i disclaimer; se qualcuno vuole fare un disclaimer perché si sente meglio a farlo, nulla di male. Ma la realtà è che se uno vuol fare del mentalismo, parte dell’esperienza consiste nell’assumere su di sé una forma di responsabilità che per la maggior parte dei prestigiatori è una novità; perché non importa cosa verrà detto, ma il pubblico trarrà delle conclusioni.


Note

1. La legge prende il nome dallo scrittore di fantascienza Theodore Sturgeon che la formulò nel numero della rivista Venture del marzo 1958.

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