Video e trascrizione della relazione tenuta il 22 febbraio 2020 da Mariano Tomatis a Roma nell’ambito del festival di letteratura fantastica Valico Festival 2020.

È insolito presentare il libro di un altro autore – e nel caso del lavoro che illustro in questa sede, non basta giustificarmi spiegando che chi lo scrisse è morto nel 2004. La mia scelta di portare Il tesoro maledetto di Rennes-le-Château (1)  a un Festival letterario dedicato al “fantastico” (Valico Festival, Roma, 22-23 febbraio 2020) si basa sull’importanza che queste pagine hanno avuto nell’alimentare furibonde controversie, scoppiate a cavallo della sfumata regione che divide realtà storica e fiction.

Al cuore c’è una vicenda di tesori: alla fine dell’Ottocento, il parroco di un villaggio sui Pirenei diventa all’improvviso ricchissimo; in paese si mormora che abbia trovato dell’oro – forse proveniente dal sacco di Roma compiuto dai Visigoti nel 410. Alla morte del sacerdote, la vicenda diventa una nota a piè pagina nei libri dedicati alla regione: nulla fa presagire che, un secolo più tardi, da alcuni dettagli di quella storia, fiorirà uno dei romanzi più venduti di tutti i tempi – Il codice Da Vinci di Dan Brown.

Se il tesoro di Rennes-le-Château diventa famoso lo dobbiamo a un bizzarro esoterista dalle simpatie naziste: Pierre Plantard. Nato a Parigi nel 1920, aveva militato in alcuni gruppi collaborazionisti del regime di Vichy. In cerca di visibilità negli ambienti tradizionalisti, aveva costruito a tavolino una complicata teoria del complotto, incentrata su Rennes-le-Château. Sulla base di documenti da lui realizzati, Plantard si presentava come ultimo discendente della dinastia merovingia. Secondo la bizzarra versione alternativa dei fatti proposta dall’esoterista, la stirpe dei Merovingi si era rifugiata nel villaggio pirenaico quando la Corona francese era finita sulla testa dei Carolingi. In linea con la mistica del “sangue divino”, l’uomo rivendicava il trono di Francia su una base genetica: il sangue che scorreva nelle sue vene lo dotava di poteri sovrannaturali, cui alludeva interpretando la parte del sensitivo con il nome d’arte di Chyren.

L’errore di Plantard consiste nell’affidare la diffusione del complotto a un partigiano: Gérard De Sède ha un passato da poeta surrealista dalle idee radicali. Da giovane, l’autore era entrato a far parte del gruppo Réverbères, un cenacolo culturale in aperta opposizione al nazismo, i cui membri rifiutavano ogni contatto o dibattito con gli artisti reazionari, argomentando che “non si discute con gli imbecilli né con gli assassini”. Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, De Sède si era rifugiato a Tolosa, dove aveva fondato un circolo culturale di ispirazione marxista. Qui aveva preso parte alla Resistenza, occupando un castello a Saint-Germain-la-Poterie con una banda di intellettuali trotzkisti: la sua attività di militanza si divideva tra la scrittura poetica e il taglio della legna.

La distanza ideologica tra i due personaggi si misura sfogliando alcuni loro scritti degli Anni Quaranta. Il ritratto di De Sède sul frontespizio del poemetto surrealista L’incendie habitable è firmato da Tita, una pittrice ebrea i cui falsi (spacciati per Dalì, Picasso e Mirò) vengono venduti per finanziare attività a sostegno di rifugiati e clandestini. Nello stesso periodo, Pierre Plantard scrive propaganda antisemita per la rivista Vaincre, organo di un’associazione esoterica che esclude per statuto ebrei e massoni.

L’assurdo sodalizio tra i due nasce a metà degli anni Sessanta. Plantard ha bisogno di infiltrare la sua teoria del complotto nella letteratura popolare e coinvolge nell’operazione De Sède; quest’ultimo ha al suo attivo diversi libri divulgativi, incentrati sui misteri storici francesi. Il tesoro maledetto di Rennes-le-Château esce nel 1967 con la sola firma di De Sède, ma tutto il testo è scritto in prima persona plurale – e se si sbircia il contratto con la casa editrice Julliard, si scopre che una parte dei diritti d’autore sono riconosciuti a Plantard. Ma è improprio parlare di ghost writing, perché De Sède non si limita a ripetere come un pappagallo gli scenari concepiti ad arte dal (preteso) “ultimo dei Merovingi”; l’operazione dell’autore surrealista è sottile e presenta tutti gli elementi del sabotaggio. Per coglierne la portata bisogna rievocare il clima culturale della Francia di quegli anni.

Nel 1960 era uscito Le matin des magiciens (“Il mattino dei maghi”) di Louis Pauwels e Jacques Bergier. Il libro era una sublime accozzaglia di fatti, fattoidi e fantasie simboliche, mirate a evocare un ragionevole – ancorché straniante – senso della meraviglia. Il libro non si proponeva come uno strumento per conoscere la scienza o scoprire i meccanismi che regolano il mondo: il suo rigore documentario era del tutto superficiale, aderendo piuttosto a un incontrollato entusiasmo dai risvolti più creativi che ineccepibili, più onirici che filologicamente accurati. Efficaci pungoli per osservare la realtà da punti di vista inediti, i due autori mettevano la propria visionarietà al servizio della meraviglia, descrivendo il loro approccio alla conoscenza con l’espressione “realismo fantastico”:

È per difetto di fantasia che letterati e artisti cercano il fantastico fuori della realtà, nelle nuvole. Non ne ricavano che un sottoprodotto. Il fantastico, come le altre materie preziose, deve essere estratto dalle viscere della terra, dal reale. E la fantasia autentica è ben altra cosa che una fuga verso l’irreale. [...] Generalmente il fantastico viene definito come una violazione delle leggi naturali, come l’apparizione dell’impossibile. Per noi non è affatto questo. Il fantastico è come una manifestazione delle leggi naturali, un effetto del contatto con la realtà quando essa viene percepita direttamente e non filtrata attraverso il velo del sonno intellettuale, attraverso le abitudini, i pregiudizi, i conformismi.

Nel 1965 la città di Parigi reagisce con sconcerto a un sensuale e terrificante spettacolo trasmesso sugli schermi televisivi di tutta la nazione: gli episodi di Belphégor. Le fantôme du Louvre (“Belfagor. Il fantasma del Louvre”) catturano l’immaginazione dei telespettatori, raccontando le vicende dello spettro che si aggira per il più noto museo del mondo – il tutto sullo sfondo della ricerca del tesoro dei re di Francia da parte di una setta segreta. Pur prendendo spunto dall’omonimo romanzo di Arthur Bernède (1925), la serie televisiva fa tesoro della lezione di Pauwels e Bergier – e sin dalla prima scena, che fornisce la cornice di riferimento di tutto ciò che verrà raccontato di lì in avanti.

La vicenda si apre in un mercatino delle pulci di Parigi, dove Andrè Bellegarde incontra un vecchietto che colleziona ritagli di giornale dedicati a fatti insoliti; l’uomo è la versione francese di Charles Fort, il collezionista di “fatti maledetti” reso noto ne Il mattino dei maghi. Prima di introdurre il ritaglio cruciale, che fa cenno al fantasma del Louvre, l’anziano reagisce allo scetticismo scientifico di Andrè illustrando la curiosa prospettiva da cui guarda il mondo:

Che sia vero o no, conta poco. Quello che conta è la leggenda, la favola. Il mondo moderno, con tutte le sue brutali realtà, ha tanto bisogno di sognare.

Belfagor è una serie fantasy, basata a sua volta su un romanzo fantastico, ma il disclaimer sulla relativa importanza di vero e falso è un elemento chiave del racconto. Perché Gérard De Sède, da buon surrealista, lo userà in apertura de Il tesoro maledetto di Rennes-le-Château. Alla fine di tante opere di fiction si trova spesso una nota legale che protegge gli autori dal rischio di denunce da parte di chi si riconosce nelle vicende narrate:

Ogni somiglianza con personaggi o fatti esistenti è puramente casuale.

In modo del tutto simmetrico, molti film dell’orrore e romanzi pseudostorici vengono preceduti da un cartello che dice:

Ispirato a fatti realmente accaduti.

Gérard De Sède spiazza da subito chi legge, aprendo il suo libro su Rennes-le-Château con questo disclaimer:

C’è una certa somiglianza tra i fatti raccontati in questo libro e una costruzione immaginaria, ma è solo frutto del caso. Questo non la rende meno strana, trattandosi di una somiglianza suggestiva (p. 4).

L’autore si colloca esattamente a metà tra le due frasi citate in precedenza: “la vicenda somiglia casualmente a una costruzione immaginaria, e tale similitudine è suggestiva”. Che significa?

Significa che siamo davanti a uno spettacolo di mentalismo, la branca dell’illusionismo che – negando la propria natura ingannevole – simula in maniera efficace l’esistenza di fenomeni paranormali, coincidenze sorprendenti e invisibili connessioni tra gli individui. L’efficacia retorica del mentalismo si misura sul pubblico, che – lungi dal credere che una donna si possa segare in due o un coniglio possa apparire da un cappello vuoto – è tendenzialmente disponibile ad accettare che la lettura del linguaggio del corpo consenta di leggere nel pensiero; chi si occupa di mentalismo tende a coltivare negli spettatori tali convinzioni, collocando nell’ambito dell’intrattenimento una serie di contenuti informativi che altri etichettano apertamente (e con una qualche ragione) come “disinformazione scientifica”.

Nel suo libro, Gérard De Sède allestisce un simile palcoscenico dove la realtà viene parzialmente distorta nella direzione del fantastico, ma la distorsione viene opportunamente nascosta. Una buona metà dei fatti raccontati nelle sue pagine sono bugie, frutto di esagerazioni e forzature – ma, proprio come farà pochi anni dopo Peter Kolosimo in Italia, De Sède camuffa da saggio divulgativo una narrazione fantasy e lo fa così bene da generare un vero e proprio profluvio di epigoni e scatenare un fenomeno turistico ancora vivo dopo oltre mezzo secolo. Il suo libro inaugura una stagione di cacce al tesoro che non si è ancora esaurita: decine di migliaia di pagine verranno dedicate al sacerdote miliardario di Rennes-le-Château e intorno al caso nascerà un vero e proprio mercato, fatto di metal detector, pendolini da radioestesia, bacchette da rabdomante, mappe del tesoro, pergamene cifrate e dubbi reperti storici.

Com’è facile immaginare, l’amicizia tra De Sède e Plantard dura poco – e a distanza di anni, bisogna ammettere che a vincere la partita è l’autore surrealista. Dagli anni Settanta in avanti il complotto di Plantard perde ogni credibilità, mentre Il tesoro maledetto di Rennes-le-Château diventa la bibbia dei cercatori di tesori: il libro di riferimento per chiunque voglia essere introdotto a una delle storie segrete più affascinanti della storia occulta dell’Occidente.

Lo scenario concepito da Plantard, ieratico e cerimoniale, viene relegato in un angolo: compiendo quello che alcuni ritengono un sacrilegio, De Sède sostituisce il sussiego con un atteggiamento ludico; il suo libro è infarcito di giochi di parole, microslittamenti semantici, rebus e messaggi cifrati. Alla mistica, Gérard De Sède preferisce l’enigmistica – ed è su questo terreno che si compie il sabotaggio definitivo delle deliranti aspirazioni dell’esoterista.

Ma ad affascinarmi di più, tra le pagine del libro di De Sède, è la serie di indizi disseminati nel testo per richiamare chi legge al principio di realtà. De Sède padroneggia la prosa della divulgazione storica e segue un andamento che si dipana tra date e luoghi precisi, ma il percorso è punteggiato da suggestioni simboliche che spostano di continuo (e a volte in modo impercettibile) il focus sul piano dell’ipotesi, fino a confondere realtà storica e ricostruzione immaginifica. La lettura è ipnotica e chi si ferma alla superficie può restarne intrappolato: sono numerosi i forum di discussione in cui alcuni lettori difendono le ricostruzioni proposte da De Sède, senza riconoscere la natura fantastica di gran parte di esse. E se sconsiglio di costruirsi un’idea sulla vicenda basata esclusivamente su queste pagine, voglio segnalare alcune delle strizzate d’occhio con cui De Sède invita a una lettura lucida e consapevole.

Il libro si apre planando a volo d’uccello attraverso la valle del fiume Aude, anticipando l’ouverture di Shining (1980) e chiudendosi in maniera altrettanto lugubre: il tesoro di Rennes-le-Château è maledetto perché chi se ne occupa muore.

Leggendo l’incipit del libro, pare di seguire il vecchio maggiolino di Jack Torrance, che lascia alle spalle la civiltà per raggiungere l’inferno dell’Overlook Hotel:

Il viaggiatore che da Carcassonne risale il corso del fiume Aude, lascia presto un paesaggio rigoglioso per addentrarsi in una valle di gole aspre e selvagge che la Natura e la Storia si sono accanite a tormentare: il Razès (p. 5).

È notevole l’intreccio tra i colori e gli odori con cui si racconta la ripresa a volo d’uccello:

In forte contrasto, l’azzurro del cielo e l’ocra rossa della terra sembrano proseguire sotto i nostri occhi l’insanabile scontro tra Eraclito e Zenone, tra il caos turbolento e l’ordine immobile. I lecci, le ginestre, i cisti, la lavanda e il timo si aggrappano con la forza della disperazione alle rocce fulve che, come dilaniate dai denti di un gigante, sono traforate da innumerevoli caverne. Qua e là spuntano le rovine di un castello, testimoni incorruttibili di epoche che si ostinano a restare mute (p. 5).

Questo non è Stephen King né Tolkien. Questo libro si presenta come un saggio di storia locale, ma appena stiamo per convincerci che l’accurata descrizione orografica serva a documentare l’oggettività del racconto, De Sède rende il percorso sdrucciolevole, concludendo:

È un paesaggio fantasmagorico, dove a fatica si distingue l’arte dei primi uomini dalle fantasie della natura e che spinge la mente sui declivi di un’archeologia immaginaria (p. 8).

Siamo, appunto, sui declivi scivolosi di “un’archeologia immaginaria”, e se ce lo dimentichiamo, rischiamo di cercare a Rennes-le-Château il tesoro sbagliato.

Il libro è pieno di microdeviazioni di questo tipo, efficaci nell’evocare l’atmosfera del realismo fantastico teorizzata da Pauwels e Bergier. Possiamo affrontare il testo in modo acritico, oppure – come stiamo facendo – restare ammirati dal potere del linguaggio di collocarci in una realtà aumentata e parallela che somiglia a quella dei romanzi.

Quello che in Shining è l’Overlook Hotel, qui è la chiesa del villaggio.

Entrando, infatti, si viene colti da uno strano disagio. La prima cosa che si nota è un diavolo deforme che sostiene l’acquasantiera; man mano che gli occhi si abituano al buio appare un intero esercito di statue dal viso deformato in espressioni teatrali, ferme in posizioni insolite, decorate con colori sgargianti e intente a fissare il visitatore con un insopportabile sguardo vitreo. Sembra di trovarsi [...] in un museo delle cere in salsa biblica. Ma ben presto, anche senza volerlo, ci si ritrova catturati in uno strano mondo dove ciascun dettaglio sembra far parte di un disegno oscuro ma perfettamente concertato (pp. 10-1). Qui sembra che tutto sia stato progettato da un illusionista, con una minuzia maniacale, da un lato per suggerire l’esistenza di un mistero, dall’altro per provocare – al suo cospetto – un senso di repulsione (p. 120).

L’ipotesi pazzesca suggerita da De Sède è ancora più estrema di quella proposta ne L’isola del tesoro, perché a Rennes-le-Château la mappa per trovare il deposito d’oro è stata nascosta in codice nelle stazioni della via Crucis e nelle statue fatte realizzare dal parroco miliardario.

[Don Bérenger Saunière] ci ha lasciato – sotto le spoglie dell’iconografia religiosa – una pista, un modello in scala che alludeva in modo obliquo ai luoghi che aveva esplorato e dei quali aveva carpito i segreti. A questo scopo, mise in opera un linguaggio di metafore e allegorie che resta muto per lo straniero ma che può essere letto con facilità da chi è abituato a questo procedimento e conosce bene la storia di Rennes e la toponimia della sua regione. Questa chiesa ricorda la lettera del famoso racconto di Edgar Allan Poe che era introvabile proprio perché troppo visibile (pp. 120-1).

Ma visto che appunto l’ipotesi è pazzesca, Gérard De Sède cerca di renderla plausibile scandagliando la psicologia del sacerdote e citando Foucault, secondo cui

Il linguaggio è il luogo delle rivelazioni, la parte dello spazio dove la verità si manifesta e si enuncia.

De Sède immagina Saunière sconvolto dal ritrovamento del tesoro e scrive:

Le scoperte di una qualche importanza modificano sempre profondamente l’universo mentale dei loro autori. A maggior ragione, l’autore di un ritrovamento stupefacente sarà – se non lo può rivelare – prigioniero di una contraddizione quasi intollerabile tra l’orgoglio che lo spinge a parlare e il timore che lo costringe a tacere. Ed è probabile che sarà ossessionato per tutta la vita da ciò che ha visto e che non potrà confidare a nessuno. Sin dalla notte dei tempi la Fiaba ha rappresentato questa dinamica: è la favola del barbiere di Re Mida. Avendo scoperto che il re nascondeva delle orecchie d’asino sotto il berretto, l’uomo scavò un buco, confidò il segreto alla terra e ricoprì tutto frettolosamente; in quel punto, però, spuntarono delle canne che, al minimo alito di vento, diffondevano la sua indiscrezione. Chi si trova in questa situazione, ha una sola alternativa: parlare cercando di non farsi capire o cercare di farsi capire senza parlare. A questo scopo, il linguaggio comune non è di alcun aiuto; egli dovrà quindi forgiare un nuovo linguaggio, creare un mare dove poter, senza troppi rischi, lanciare il suo messaggio in bottiglia; se non ne è già un adepto, deve reinventare l’ermetismo. Questa singolare procedura potrebbe essere proprio quella adottata dai vari detentori del segreto di Rennes che si sono succeduti nel tempo; forse ha ispirato loro, nei secoli, la costruzione di un puzzle fantastico, davanti al quale ci si ritrova a pensare che il famoso detto di André Breton “l’immaginario è ciò che tende a diventare reale” non è che una timida approssimazione. (pp. 97-8).

A oggi, l’unico autore in grado di recuperare lo stesso immaginario e superarlo, trasformando la vicenda di Rennes-le-Château in un raffinato e vertiginoso racconto filosofico, è stato Umberto Eco ne Il pendolo di Foucault (1988): gli echi reciproci tra il libro francese e il romanzo italiano sono profondi. Nessun altro autore è riuscito a raccontare con altrettanta maestria la stessa storia, e non è un caso se il villaggio sia oggi associato ironicamente a Roberto Giacobbo e alla strampalata e approssimativa divulgazione storica (?) alla base delle sue trasmissioni televisive – che sul caso di Bérenger Saunière tornano periodicamente, e sempre in forme indistinguibili dalla parodia che ne fa Maurizio Crozza.

Per evitare di spoilerare ulteriormente i numerosi colpi di scena del testo di De Sède, concludo leggendo una serie di ventisei messaggi condivisi su Twitter il 21 gennaio 2020 da Adrien Corbeel, un ragazzo francese che lavora in un’escape room. Raccontano una storia completamente diversa: una vicenda accaduta ad Adrien in ambito lavorativo.

• Ho lavorato per un anno come game master in un’escape room. Per dodici mesi ho avuto l’opportunità di assistere a molte cose improbabili, ma ce n’è una che supera di gran lunga tutte le altre.
• È successo due mesi fa. Avevamo appena aperto una stanza nuova di zecca, con un’atmosfera un po’ strana. Alcuni gruppi l’avevano già testata e, se si escludono alcune piccole questioni tecniche, funzionava abbastanza bene. Chiaramente, non eravamo pronti per quello che sarebbe successo.
• Un gruppo di tre persone è entrato nella stanza verso fine giornata. Li chiudiamo dentro e il gioco ha inizio. Non essendo particolarmente dotati, iniziamo a dare loro parecchi indizi (tramite un walkie-talkie) per facilitare la risoluzione dei puzzle. Fin qui nulla di anormale.
• Ci sono due cose importanti da sapere sulla stanza, per capire quello che succederà in seguito: 1) quando i giocatori entrano, l’escape room è intenzionalmente in disordine 2) durante il gioco, uno degli oggetti da trovare è un’arma di plastica.
• I tre proseguono nel gioco, fino a raggiungere la fine. La stanza presenta due porte: una conduce all’uscita e si apre con una chiave; l’altra è chiusa con un lucchetto e porta a una futura estensione della stanza (ma per il momento, la usiamo solo come magazzino).
• Manca un solo minuto, e l’unica cosa da fare per vincere è di frugare un po’ e trovare la chiave che li conduca fuori. Solo che non riescono a trovarla. Quella che hanno in mano è una chiave che hanno già usato e che in condizioni normali viene usata solo una volta...
• Peccato che (a nostra insaputa) quella chiave apra il lucchetto della stanza magazzino.
• Quindi il gruppo apre la porta della stanza e la trova un po’ sottosopra: ci sono seghe, trapani, assi di legno. I tre si convincono che faccia parte dell’escape room – ed è inevitabile: la stanza è un casino, il che è coerente con la situazione trovata all’inizio del gioco.
• A questo punto iniziano a frugare dappertutto. Noi, intanto, non vediamo quello che sta capitando: la struttura presenta molti punti ciechi e non ci sono telecamere che riprendano il magazzino. E a peggiorare le cose, siamo impegnati a monitorare le altre escape room.
• La situazione potrebbe degenerare; ci sono un sacco di cose pericolose nella stanza: chiodi, arnesi, ecc. A un certo punto, succede l’improbabile: i tre trovano una chiave. E questa chiave apre un’altra porta. Che conduce al cortile interno del palazzo dove abbiamo le escape room. All’esterno.
• Il gruppo, quindi, esce. E i tre sono ancora convinti di trovarsi nella cornice narrativa dell’escape room. Nel cortile trovano perfino un indizio che sembra collegato a un altro elemento del gioco e che non fa che rafforzare la loro convinzione.
• Normalmente, il cortile interno non ha via d’uscita. C’è una porta che si affaccia sul cortile dell’edificio accanto, ma generalmente è chiusa. Ma quel giorno, inevitabilmente, è aperta. E i due la imboccano.
• Dal canto nostro, iniziamo a preoccuparci di non vederli uscire e di non trovarli sugli schermi di sorveglianza. Alla fine, un mio collega va a cercarli nella stanza e non li trova (tra l’altro, per qualche motivo, avevano chiuso le porte dietro di loro).
• Al che torna indietro in preda al panico. Non trovo più i clienti! Com’è possibile che non li trovi più?
• Loro, intanto, si trovano nel cortile dell’edificio accanto e, per quanto sembri implausibile, sono sempre persuasi che faccia parte del gioco: a loro difesa, va detto che il cortile sembra davvero allestito come un’escape room. C’è persino un’auto con il finestrino rotto e le gomme forate.
• Un dettaglio che fa molto ambient. E così l’avventura continua. Entrano nell’edificio accanto: una costruzione del tutto estranea alle nostre escape room.
• Convinti che non rimanga loro molto tempo (e in effetti...), si affrettano e salgono le scale.
• Da qui in avanti, non ho tutti i dettagli precisi di quello che succede, ma so che entrano in una stanza dell’edificio (forse una lavanderia) in cui ci sono molti vestiti. Pur frugando qua e là, non trovano nulla (nessuna chiave questa volta).
• Lasciano la stanza, continuano a salire le scale e si trovano faccia a faccia... a due ragazzi che stanno fumando uno spinello. I due ragazzi vanno fuori di testa e scappano. Perché?, vi chiederete. Perché di fronte a loro ci sono tre estranei che hanno una pistola in mano.
• I giocatori, infatti, hanno lasciato il walkie-talkie nella stanza, ma hanno portata con sé la pistola di plastica (che non è nemmeno molto realistica, ma quando hai fumato dell’erba, non è che presti attenzione a questi dettagli!)
• A questo punto il palcoscenico viene giù e i tre capiscono. Finalmente. Si rendono conto, infatti, che difficilmente un’escape room paga due ragazzi per farsi uno spinello come elemento di gioco. Non un’escape room il cui ingresso costa solo 20 euro: una cifra incompatibile con un gioco che si estenda all’edificio accanto.
• Al che ritornano indietro, ripercorrendo la strada nella direzione opposta e rientrando nella stanza in cui si trovavano all’inizio, con nostro grande sollievo. Noi, nel frattempo, stavamo impazzendo. Loro, invece, sono raggianti e ci raccontano tutto. Ne parlano come della migliore escape room della loro vita.
• In quel momento (ma anche dopo) ho il cervello in fiamme. Perché ci sono almeno cinque enormi coincidenze che si sono susseguite una dopo l’altra per dare vita a quel che è successo. Perché è così improbabile che io stesso stento a crederci.
• Tra l’altro, il tutto avrebbe potuto evolvere in brutte direzioni. Cosa sarebbe successo se fossero entrati nell’appartamento di qualcuno? E se si fossero trovati di fronte a qualcuno particolarmente violento? Come avremmo potuto spiegarlo alla polizia?
• (Inoltre, sono rientrati con un metro che avevano trovato non so dove nell’edificio accanto, convinti che fosse un indizio. Ma quello è un furto!)
• Fine della storia.

Quando ho letto questa vicenda, ho pensato che siamo tutti legati dalla stessa esperienza: prima di nascere, abbiamo trascorso nove mesi in un’escape room, poi – una volta fuori – abbiamo iniziato a girare per il mondo spaesati, in cerca di un senso, di indizi che ci aiutino a orientarci e a trovare una via che ci conduca verso l’Altrove, un luogo dove scopriremo nei dettagli il disegno complessivo. Qualcuno pensa che esista un game master, altri – come me – credono che si debba fare tesoro dell’assenza di un’Intelligenza superiore, considerandola un appello rivolto a noi esseri umani: le uniche isole di senso nel mondo sono quelle che possiamo concepire per conto nostro – attraverso la letteratura, l’arte, la musica – o rintracciare con l’indagine scientifica.

Leggendo il libro di Gérard De Sède, vi verrà voglia di raggiungere Rennes-le-Château. Da oltre cinquant’anni, decine di migliaia di persone usano le sue pagine come manuale d’istruzioni per un gioco di ruolo che si svolge – in scala 1:1 – nella sua regione. L’obbiettivo consiste nel ritrovare un tesoro, la cui natura sfuggente e misteriosa non fa che suscitare la continua elaborazione di spin-off. Lo stile della scrittura di De Sède, allusivo e reticente, ha fatto di Rennes-le-Château un’escape room senza pareti: un luogo dove dietro ogni segno c’è un messaggio, la paranoia è premiata e i game master se ne sono andati. Il tesoro maledetto di Rennes-le-Château è la chiave che porta sul cortile, sfuma ogni confine tra realtà e gioco e costringe chi vi entra a muoversi con circospezione. Perché, come ammonisce la trama oscura del romanzo di Umberto Eco, l’incapacità di distinguere tra verità e finzione spiana la strada ai totalitarismi e conduce alla follia. A capirlo, di fronte al Pendolo di Foucault, è Casaubon, convinto che

il mondo sia un enigma benigno, che la nostra follia rende terribile perché pretende di interpretarlo secondo la propria verità.


Note

1. Tutte le citazioni da Il tesoro maledetto di Rennes-le-Château sono tradotte dal francese da Roberto Gramolini. La traduzione dei tweet di Adrien Corbeel è a cura di Mariano Tomatis.

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