Lo scorso novembre è uscito La setta divina (Piemme 2021) di Ferruccio Pinotti. Il libro dà conto dei lati oscuri del Movimento dei Focolari (MdF), un’organizzazione religiosa a cui ho aderito tra i 18 e i 24 anni.

Pur tradendo un lavoro redazionale frettoloso e poco curato, l’instant book ha il pregio di dare voce a numerose persone che hanno lasciato il Movimento dopo aver preso coscienza degli abusi che vi vengono consumati, conseguenza dei gravi problemi strutturali alla base dell’organizzazione. È a tratti insopportabile il dolore che emerge della lettura del libro: uno dei motivi ricorrenti, nei racconti delle persone sopravvissute, è la sensazione che le ferite aperte a seguito dell’adesione al Movimento non potranno mai essere risanate; l’altro tratto straziante è la sofferenza per la damnatio memoriae che colpisce chiunque si allontani dall’organizzazione. Confrontarmi con quelle esperienze mi ha fatto riflettere sulla condizione di privilegio da me vissuta, avendo potuto affidarmi per molti anni alla cura di psicoterapeuti, grazie al cui sostegno ho potuto curare quelle ferite, coltivare una comunità di amic* estranea allo stigma che pendeva su di me e restituire senso all’idea (epica e urgente) di lottare per un mondo migliore.

La recente condanna di un focolarino francese per ripetuti episodi di violenza sessuale su minori rischia di focalizzare la critica sul (gravissimo) problema della pedofilia, tenendo fuori dai riflettori le altre forme di abuso di cui dà conto il libro e a cui ho assistito nei miei sei anni di frequentazione. Gli abusi del MdF che più spesso restano nell’ombra rispondono a tre principi – ahinoi, per nulla originali!

1) Pagare il minimo indispensabile (eventualmente nulla) chi lavora, in modo che i guadagni convergano ai vertici delle gerarchie.

Questa non è un’invenzione del MdF ma la regola su cui si basa la società capitalista. Il Movimento non fa nulla per smarcarsi da questa forma di abuso sistematico e diffuso nelle aziende di tutto il mondo, basato sulla disparità retributiva tra padroni e operai. La strategia con cui il MdF maschera questi abusi sui membri interni dell’organizzazione si chiama “economia di comunione” ed è una foglia di fico molto efficace dal punto di vista retorico. Alcune e alcuni testimoni del libro di Pinotti hanno subìto per anni questo trattamento iniquo, del tutto equiparabile a quello che colpisce chi raccoglie pomodori per 4 euro al giorno. Una battaglia per i diritti minimi sindacali dovrebbe svolgersi in coordinamento con quelle di decine di organizzazioni laiche per la difesa dei diritti di lavoratrici e lavoratori.

2) Forzare le persone nelle gabbie (binarie) di genere.

Questa non è un’invenzione del MdF ma la regola su cui si basa la società eteropatriarcale. Il Movimento non fa nulla per smarcarsi da questa forma di abuso della personalità, al contrario: forza le persone a ricondursi entro confini precisi e definisce “contronatura” ogni espressione di genere diversa dalle uniche due riconosciute (maschio e femmina) e di orientamento sessuale diverso da quello eterosessuale. Sono decine le dichiarazioni ufficiali del MdF in cui la fondatrice e le sue compagne insistono sulle differenze essenziali tra uomo e donna, disconoscendo ogni diversa forma di esprimere il genere e affermando l’esistenza di un piano di Dio a cui ci si deve adeguare, in cui alla donna sono connaturate doti di sacrificio superiori. Tale pressione vìola la formazione di una personalità autodeterminata e libera di esprimersi secondo il proprio sentire. La strategia con cui il MdF nasconde questi abusi sta nel presentarsi come una realtà “femminista” in quanto presieduta da una donna – ma è un femminismo di facciata, appiattito su posizioni reazionarie tipiche dei movimenti Pro Famiglia. L’ex focolarino Gordon Urquhart ha testimoniato di aver subìto queste pressioni sulla propria pelle e di averne viste all’opera più volte: il MdF tende a “curare” l’omosessualità combinando fidanzamenti e matrimoni con persone dell’altro sesso. In generale, nel MdF non c’è spazio per i membri della comunità LGBTQA+ e quando se ne parla, lo si fa sempre e solo in termini paternalistici, come se l’attitudine queer fosse una forma di disabilità. Una battaglia per i diritti all’autodeterminazione dovrebbe svolgersi in coordinamento con quelle di decine di organizzazioni transfemministe plurali e dal respiro intersezionale.

3) Offrire come salvezza dalle brutture del mondo uno spazio chiuso a cui si può accedere solo rinunciando alla propria libertà e dimostrando obbedienza verso le gerarchie.

Questa non è un’invenzione del MdF ma la regola su cui si basano le società totalitarie. Io stesso sono stato per un certo periodo abbagliato dal Movimento perché quello scambio mi sembrava equo: rinuncio alla libertà e in cambio le mie ferite verranno curate da una comunità protetta, chiusa e autarchica. Sul lungo periodo mi sono reso conto che la libertà individuale è un valore più prezioso del falso calore che si sperimenta in una prigione dalle finestre opache, una scatola nera che nasconde la frattura tra la base e la gerarchia – una casta di persone elette che decide cosa è bene per chi sta sotto e pretende obbedienza cieca. Una battaglia efficace contro questa forma di controllo parte dall’ammettere che è difficile uscire da quella prigione per il (fragile e illusorio ma abbagliante) senso di sicurezza che si prova al suo interno e per il violento stigma che il Movimento riserva a chi mette in discussione le sue sbarre. Chi si libera viene raccontato come un perdente, invece di riconoscerne l’eroismo e celebrarne la capacità di ribellarsi all’abuso.

Individuate queste aree problematiche, non credo nell’idea di “riformare” un’organizzazione che si limita a replicare i peggiori abusi della società allargata: non basta uscirne per ritrovare la libertà, perché gli stessi abusi ti aspettano fuori, figli sani di una cultura profondamente capitalista, eteropatriarcale e tendente al totalitarismo. Nondimeno, osservo con sofferenza e partecipazione il dolore delle tante persone ancora rinchiuse in quello spazio angusto e oppressivo – e sono tentato di rassicurarle: c’è vita, dopo e fuori dal Movimento dei Focolari; la lotta per un mondo migliore non si esaurisce, una volta lasciata quella prigione, al contrario: solo lontano da quelle fiamme (che non purificano ma soffocano) può iniziare davvero.

Il logo di OREF, l’organizzazione delle persone sopravvissute al Movimento dei Focolari.

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