Psychiatric Circus: un’orgia antinazista da osservare con interesse - Mariano Tomatis


Mariano Tomatis, 3 aprile 2015

Psychiatric Circus: un’orgia antinazista da osservare con interesse

Le recensioni facevano tremare i polsi e le pubblicità alzare il sopracciglio: lo Psychiatric Circus si preannunciava l’infame presa in giro del disagio mentale da parte di un gruppo di acrobati neonazisti. Ad andare in scena, però, è tutt’altro – e mai come in questo caso lo spettacolo va visto nella sua interezza per essere giudicato.

Smarchiamoci subito dal limite più evidente: gli attori fanno continuo ricorso alle parolacce per strappare risate facili (e il parallelo con “I soliti idioti” segnalato da Noemi Penna su La Stampa (1)  è azzeccato). L’intermittenza del registro grossolano mal si coniuga con i tentativi (alcuni pienamente riusciti) di proporre narrative più complesse e autenticamente spiazzanti.

La pista è un manicomio gestito da un sacerdote psicopatico: la figura di Padre Josef, interpretata da Gianni Risola, si ispira agli exploitation prison movie degli anni Settanta e incarna un sadismo sghignazzante talmente sopra le righe da non invocare mai la simpatia del pubblico. Le sue omelie sono il tentativo – riuscito a metà – di ricordarci che c’è una scintilla di follia in tutti. Le continue interruzioni per dare del “testa di ca**o” ai matti che lo circondano spensierati ostacolano la concentrazione e tolgono forza al messaggio. D’altronde il disagio mentale è tema troppo difficile da affrontare con sensibilità e intelligenza, e prudenza avrebbe imposto un copione più attento e meditato (in ogni caso difficile da coniugare con il contesto circense – se non ti chiami Leo Bassi.) Molto più efficaci alcune gag con cui l’uomo coinvolge il pubblico proponendo giochi con le mani collettivi: gli spettatori si scoprono in difficoltà a seguire semplici istruzioni, scoppiando a ridere e confrontandosi con un limite inaspettato. Qui, con una certa intelligenza, il sacerdote fa notare quanto sia prezioso sorridere dei propri deficit.

Apre lo show uno dei pazienti cui Padre Josef si riferirà sempre con il nome di “nano bastardo”: imprigionato dal sacerdote in una stretta gabbia, l’ometto se ne libera arrampicandosi sulla sommità grazie a inaspettate doti acrobatiche. È il primo accenno a una dinamica che ricorrerà per l’intero spettacolo: la follia non è mai oggetto di scherno ma sempre forza dionisiaca che il religioso nazista tenta inutilmente di tenere a freno; le abilità messe in scena dai matti/acrobati producono continua meraviglia, incarnando la figura del trickster – il “puro folle” che viola le regole per liberarsi dal giogo degli aguzzini, accedere a stati di coscienza “altri” e dimostrare capacità superiori. Ai disturbanti richiami all’ordine da parte dell’autorità, volgari ed estremamente violenti, è contrapposta la costante disobbedienza di una comunità di malati che conquista la simpatia del pubblico sin dalle prime scene – e la mantiene dimostrando un enorme virtuosismo.

Tra un’acrobazia e un siparietto che coinvolge il pubblico trovano ampio spazio le allusioni sessuali, culminanti in due gradevoli spogliarelli. Quello maschile, ispirato a Full Monty, mette in scena tutti i cliché del genere – e i quattro improbabili protagonisti sfruttano l’occasione per sfornare una gag dopo l’altra. Lo spogliarello femminile è più raffinato: il controluce offre un elegante effetto vedo/non-vedo e, come nel migliore burlesque, la ballerina regge la scena in un buon equilibrio tra il sottile erotismo e la lucida consapevolezza della propria sensualità.

Spoiler alert! – Non proseguire nella lettura se non vuoi conoscere in anticipo alcuni momenti chiave dello spettacolo.

Dal fondo dei limiti su descritti emergono tre momenti davvero memorabili. Una delle esibizioni acrobatiche si svolge in una vasca piena d’acqua: Loredana Bellucci e Mario Medini, autori dello spettacolo, la riprendono dal Circo Acquatico da loro messo in scena nel 2002. Quella che poteva essere una mera esibizione di abilità diventa una storia dall’enorme potenza visiva e dai pesanti risvolti psicologici. La protagonista è una ragazza bionda in sedia a rotelle. È assopita, il capo chino e gli occhi chiusi. Tra il pubblico si diffonde una certa inquietudine quando Padre Josef inizia a pettinarla e truccarla come una bambola. L’oggetto delle sue attenzioni è inerme e, in un’escalation di perversione, il sacerdote mima una violenza sessuale. Al risveglio, quando la donna sconvolta cerca di divincolarsi, il religioso ne imprigiona i polsi con due corde. Tali sostegni le offrono un’inaspettata via di fuga e l’acrobata li usa per ascendere verso un cielo rosso fuoco, contorcendosi nell’aria e trovando – nella vasca al centro della pista – una simbolica fonte di purificazione. Date le terribili premesse narrative, le acrobazie nell’acqua si trasformano in un’abluzione rituale – e quando la ballerina si libera dalle vesti non c’è alcuna concessione alla morbosità: un costume color carne ne protegge le nudità, consentendo di restare focalizzati sulla catarsi che si dispiega nel silenzio più assoluto. Segue un finale che fa venire i brividi – a conferma che non si tratta di uno spettacolo per mammolette: stravolgendo ogni aspettativa, la purificazione è solo l’ultimo gesto che precede un drammatico suicidio, messo in scena con impressionante verismo. La sfortunata Ofelia muore a filo d’acqua in un mare di sangue, lasciando sbigottito l’infame carnefice.

In una scena successiva, una donna mostra un attaccamento morboso a una bambola. Il programma di sala ce la descrive come orfana dall’età di 6 anni:

ha visto la madre morire e il suo dolore si è trasformato in un talento magico e terrificante.

In preda a un raptus di follia, immerge le mani nella vernice e imbratta una tela con segni disordinati. All’agitazione crescente corrispondono macchie sempre più confuse, ma al clou dello sfogo due infermieri afferrano la tela, capovolgendola: ruotata di 180 gradi, la pittura sparsa qua e là ritrae il volto gigantesco della madre.

Fotografia di Giulia Gaiardoni.

Il pubblico è costretto a fare i conti con i propri pregiudizi: per un inganno percettivo, la figura capovolta era quel puro caos che spontaneamente si attribuisce al folle; cambiando punto di vista, la realtà colpisce come un pugno in faccia: quella mano era guidata da una logica dall’estetica raffinata; il tutto ci sfuggiva perché osservavamo il mondo dalla prospettiva sbagliata.

Il finale mette in scena uno sguaiato esorcismo che sfocia in una godibilissima coreografia ispirata alle performance di Marilyn Manson. Il prete impreca maldestro sul posseduto fino a scoprire che il demone si è impadronito dell’infermiera che lo assiste.

In un ballo scomposto, la donna raggiunge un’altissima pedana sospesa. Qui inizia a camminare a testa in giù, celebrando un controesorcismo speculare che mette in discussione le categorie di Bene e Male: dov’è l’uno e dov’è l’altro, se il rappresentante della Chiesa ha i tratti di un nazista ipersessuato e sadico? Le acrobazie antigravitazionali del demone al femminile invocano a sé l’intera comunità di matti, che – zombie dal volto buono – circondano il direttore del manicomio e lo divorano, in un’orgia di musica metal che segna il definitivo trionfo della follia. Il disagio psichico rivela un’irresistibile potenza sovversiva, grazie alla quale la comunità si libera dal giogo nazista e si reimpadronisce del manicomio.

Il regista Daniele Volpin manca parzialmente il bersaglio dichiarando a La Stampa che lo spettacolo costituirebbe una denuncia sulle violenze

che ogni giorno vediamo intorno a noi o in televisione e sulle quali troppo spesso ci siamo abituati a chiudere gli occhi. (2) 

Non c’è una denuncia al cuore dello spettacolo, la cui potenza è piuttosto nella celebrazione della follia come energia antirepressiva, inversione dei punti di vista, sguardo obliquo sul mondo e dionisiaco antidoto al nazismo di ogni epoca.

Le fotografie sono di Giulia Gaiardoni.

Per approfondire

- Se ti interessa il tema della rappresentazione della follia in ambito teatrale, non perdere questo numero di Yann Frisch: “Rompere le regole? Bisogna farlo bene”

- Il mentalista inglese Derren Brown si batte costantemente contro i pregiudizi. Eccolo contro lo stigma dell’omosessualità e quello della nerditudine.

Note

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