È solo un’illusione, ma pagata il giusto. I Richiedenti sono anziani soli. I Sostituti, giovani che si fingono nipoti in cambio di denaro. I primi si accontentano del surrogato di un affetto autentico. I secondi si adoperano perché l’illusione funzioni al meglio. Regola numero uno: non lasciarsi coinvolgere; ai datori di lavoro non bisogna affezionarsi. La parola d’ordine è fingere.

Al suo primo giorno di lavoro, la giovane Adele ripassa le competenze apprese a scuola:

Ho imparato a comporre i fiori in un mazzo, a giocare a carte e a fingere entusiasmo davanti alle vecchie fotografie e ai biscotti fatti in casa. (1) 

Il mondo distopico arredato da Loredana Lipperini e illustrato da Paolo d’Altan richiama quello del film The Silver Rope (2006), il cui protagonista descrive cinico:

Al mondo ci sono sempre stati due tipi di persone. Quelli che raccontano menzogne e quelli che credono alle menzogne. (2) 

Adele conosce le menzogne da raccontare e l’anziana signora – la Pupa cui è intitolato il libro (Rrose Sélavy, 2013) – farà di tutto per crederci. È un mondo squadrato il loro, alle cui categorie non si sfugge. Giovani ingannatori contro vecchi creduloni.

«È permesso?» domanda la ragazza alla donna, osservandone la mano piena di anelli favolosi. «Sono falsi» replica Pupa, spiazzando Adele e rivendicando anche per sé – prima di ogni altra cosa – il diritto alla finzione. Dov’è la nonnina fragile e ingenua che ci aspettavamo? Ma è solo il primo di una serie di stereotipi che cadranno sistematicamente per tutto il racconto. Nell’introduzione Livia Ravera ce l’aveva anticipato:

Pupa […] è nata e invecchiata per disintegrarli, gli stereotipi. […] La finta nipotina ingaggiata per recitarle la quota di affetto […] ci mette un po’ a capirlo, che Pupa non è come ti aspetti che sia. Ma poi capisce. (3) 

Ascoltandola mentre racconta la sua infanzia a Bengasi – tra dinosauri e demoni del fuoco – Adele è conquistata da una finzione diversa rispetto a quella appresa a scuola. Le storie di Pupa costringono la giovane a violare la regola numero uno. «Keep it cool-and-dry» le avevano ripetuto come un mantra. Ma con Pupa è impossibile non lasciarsi coinvolgere. Proprio come accadde al mio guru preferito, Vikram Gandhi.

Per esplorare il delicato argomento della credulità, il giovane regista di origine indiana si era finto un maestro spirituale, radunando intorno a sé una piccola comunità di fedeli. Barba lunga e abiti cerimoniali, si faceva chiamare Kumaré e proponeva – in modo approssimativo – una spiritualità basata sul buonsenso. Proprio com’era successo nel 1988 – quando l’illusionista James Randi aveva organizzato una beffa ai danni dei media con il falso santone Carlos – l’operazione era dominata da una certa dose di cinismo. Sperimentando sul campo gli effetti della manipolazione delle coscienze, Vikram intendeva girare un documentario che si sarebbe concluso con uno spettacolare coming out.

Una quindicina di seguaci iniziò a frequentarne con regolarità l’ashram, maturando una crescente fiducia nei confronti di Kumaré. Man mano che costoro si impegnavano a consolidare un rapporto sincero e personale con il guru, Vikram sentiva l’esperimento sfuggirgli di mano. Impossibile mantenersi freddo e distaccato dentro i confini della beffa, quando gli adepti gli affidavano in confessione situazioni personali sempre più drammatiche – cercando in lui un aiuto sincero. Allarmato dalle continue richieste, sentì incrinarsi la corazza di finzione intorno al suo personaggio.

Pur aprendosi come un reportage dalla cifra goliardica (il simbolo disegnato sulla fronte degli adepti era un fallo stilizzato), il documentario Kumaré sorprende illustrando il crescente travaglio del suo protagonista. Vikram sperimentò l’impossibilità di mantenersi a distanza dal tema che stava trattando: poco alla volta, e fuori dal suo controllo, la finzione non era più tale mentre la verità scavava inesorabilmente uno spazio per sé.

Le sue riflessioni si fecero più sottili, e il cinismo lasciò spazio alla benevolenza. Gli piaceva recitare, era lusingato dal potere conquistato, ma anche inquieto per la falsità su cui il tutto si reggeva. Ma era poi tutto finto? Come ricorderà qualche tempo dopo,

in qualche modo Kumaré era una versione ideale di me; credo che se anche gli altri cercassero di creare una versione ideale di sé, forse diventerebbero più felici.

Il rapporto personale con gli adepti lo costringeva a un confronto quotidiano con la verità, nonostante la sistematica imitazione di un accento indiano durante tutte le conversazioni – anche le più intime:

Mi ero connesso più profondamente con queste persone nel mio ruolo di Kumaré piuttosto che in quello di Vikram.

Giunse l’ora dell’autosmascheramento, e il regista sentì di doverlo gestire con cautela. Era saggio ricordare la lezione di Susan Blackmore.

Nel 1995 la psicologa inglese aveva pubblicato Test your Psychic Powers (“Metti alla prova i tuoi poteri psichici” (4) ). Il libro metteva in guardia dagli errori che commettiamo interpretando come “paranormali” alcuni fenomeni naturali. Nel capitolo sulle sedute spiritiche la Blackmore mostrava di tenere in considerazione la delicata situazione mentale di chi prende parte a tali rituali. Seppure non siano in gioco forze occulte, la psiche dei partecipanti può trovarsi in condizioni precarie. Don’t keep it cool-and-dry, suggeriva. La prosa passava dai dettagli tecnici a note più personali:

Supponiamo che il vostro amico Carlo stia per dare un esame molto importante, l’ultimo prima della laurea e si sia preparato bene, ma supponiamo anche che abbia una gran paura di non passarlo. Consulta [la tavola medianica] e questa gli dice che non passerà. Potrebbe entrare in depressione, e fallire l’esame proprio perché si è convinto che è ciò che deve accadere. Se dovesse accadere qualcuna di queste cose, la sua vita sarebbe stata rovinata dalla tavola ouija. (5) 

Conoscendo la potenza dei simboli – in particolare di quelli che popolano l’area della magia e del paranormale – la Blackmore mirava al contempo a rifiutare l’ipotesi parafisica e a suggerire un’attenta vigilanza. Non sono gli spiriti a muovere i cursori sulle tavole medianiche; nondimeno è

importante […] terminare la seduta nel modo corretto. Quando ne avrete avuto abbastanza di uno “spirito”, non dimenticatevi di salutarlo e ringraziarlo: in questo modo concluderete tutto quello che avete messo in azione. Nel vostro subconscio la seduta è finita e quindi ci sono meno probabilità che la vostra mente vi giochi qualche scherzo. (6) 

Come Brian di Nazareth, Kumaré iniziò a incoraggiare i propri fedeli a pensare con la propria testa e non cercare un appoggio nei maestri spirituali. Raccontò in terza persona la storia di un guru che aveva organizzato un inganno ai danni dei propri adepti:

Si trattò di un gigantesco trucco con cui cercò di far capire ai seguaci che non avevano bisogno di un guru. Tutto quello che vuoi, perfino la felicità, è già dentro di te. Lo stesso bene che vedi in quell’uomo si trova già in te. Non hai bisogno di un guru per essere felice. Perfino io sono come chiunque altro qui. E ciascuno di voi è diventato per me il più grande guru della mia vita.

Il giorno del coming out le reazioni furono di segno diverso. Come avrebbe potuto fare Adele nel racconto di Loredana Lipperini, una donna esclamò illuminata:

Oggi abbraccio l’Illusione per trovare la Verità.

Lo ammetterà perfino Vikram, presentando così il suo documentario:

Questa è la storia della più grande bugia che io abbia mai detto e della più profonda verità di cui abbia mai fatto esperienza.

Una frase che non mi sarei stupito di trovare sulla prima pagina di Pupa.


Note

1. Loredana Lipperini, Pupa, Rrose Sélavy, Tolentino 2013, p. 9.

2. Fabio Guaglione e Fabio Resinaro, “The Silver Rope”, cortometraggio, 2008, 3’30“.

3. Lidia Ravera, “Come andrà a finire la storia” in Lipperini, op. cit., p. 3.

4. Susan Blackmore, Adam Hart-Davis, Scoprite i poteri segreti della vostra mente, Tea pratica, Milano 1996, traduzione di Maria Cristina Pietri.

5. Ivi, p. 147.

6. Ibidem.

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