Nel numero magico della donna segata in due, nessuno chiede mai alla protagonista se voglia essere ricomposta. Nel suo romanzo Damè (Bompiani 2025) Noemi Abe racconta la ribellione di una “donna a metà” contro un sistema che la vuole integra a tutti i costi.

Mirì è una hafu: metà italiana e metà giapponese, mixed-blood, “sanguemisto”. Chi la incontra le chiede sempre: “Mirì, dicci del Giappone” (p. 113) – ma vivendo a Roma, l’Oriente che ha “nella carne” resta per lei “un luogo sconosciuto e incomprensibile” (p. 108).

Il romanzo è la sua risposta ruvida, maliziosa e a tratti onirica a quella curiosità: un flusso di coscienza che attraversa le fratture di Mirì, a partire da quella originaria – “appartenere a due etnie, a due culture, a due nazionalità” (p. 247) – condizione che non rispetta i confini prestabiliti e che, per questo, è damè: non si fa.

In una società che premia solo chi sta in cima, è una tortura sentirsi “solo una sfigata” (p. 136) e doverlo nascondere ogni giorno, finendo per subire l’accusa di essere snob. Mirì dà voce a quel patire in una fulminante pagina sui tormenti della vita di mare (p. 58): l’insofferenza che non si può confessare ai vicini di ombrellone, la fatica taciuta dietro il cliché della spensieratezza balneare.

E, come accade leggendo romanzi capaci di dare spazio al buio, scoprire che qualcuno l’ha messo in parole offre il sollievo di capire che quei pensieri oscuri non sono un difetto, ma una lingua segreta condivisa.

E a quale metà dare ascolto? Quella che immagina una vita di coppia nella pacata quiete di una famiglia tradizionale, o quella che reclama spazi inviolabili per sé, per il proprio isolamento, per un dialogo interiore che non ammette intrusi? Forse l’unica strada è rifiutare il mago – l’uomo redentore che promette di ricomporre i pezzi – e rivendicare la frattura come identità. Scegliere “di rimanere sospesa fra i suoi due mondi” (p. 247) diventa allora un atto di orgoglio e di resistenza: la risposta fiera a una società che sa solo imporre unità, incapace di concepire la vitalità inquieta, irriducibile, della molteplicità.

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