Vivi nel Settecento e vuoi allestire in casa un piccolo laboratorio scientifico? Sono sei i volumi che ti devi procurare: le Lezioni di fisica sperimentale di Jean Antoine Nollet (1700-1770). Con la parola “fisica” il titolo allude, in senso lato, alla scienza della natura nel suo insieme: il corso di Nollet comprende lezioni di idraulica, pneumatica, meccanica, ottica, elettricità e magnetismo e coinvolge nuovi specifici strumenti realizzati a scopo didattico.

Il divulgatore è così famoso che le famiglie regnanti fanno a gara per averlo: nel 1739 re Carlo Emanuele III di Savoia lo convoca a Torino come “professore di fisica” della casa reale; nel 1758 re Luigi XV lo vuole a Versailles come insegnante per i suoi figli, invitandolo ad allestire per loro un “gabinetto di fisica”.

Uno degli oggetti che meglio descrivono le sue dimostrazioni è il doppio cono di legno che sembra vincere la forza della gravità, arrampicandosi su due binari. Nelle sue dimostrazioni pubbliche, Nollet dapprima stupisce il pubblico mostrandone lo strano comportamento; poi mostra che, mentre il doppio cono sembra salire, in realtà il suo baricentro scende in accordo con le leggi della meccanica. (1) 

Jean Antoine Nollet, Leçons de physique expérimentale, Vol. III, Lezione 9, Planche 7.

Jean Antoine Nollet e i segreti s-velati

Nulla resta nascosto nelle dimostrazioni di Nollet perché ogni fenomeno stuporoso è seguito dalla sua esaustiva spiegazione; il fisico francese ritiene che onestà e trasparenza siano precisi doveri per ogni divulgatore:

Vi è permesso di fissare l’attenzione dei vostri ascoltatori tramite fenomeni che li sorprendono [ma] non è degno di un fisico lasciar loro ignorarne le cause, quando esse si possono far conoscere. (2) 

Costruendo gli strumenti didattici bisogna dunque preferire il vetro trasparente

al metallo e alle altre materie opache, […] per far vedere il meccanismo delle operazioni: poiché, lo ripeto, il nostro primo punto di vista deve essere di insegnare, illuminare, e non di sorprendere o imbarazzare. (3) 

Raimondo di Sangro e i segreti velati

Chi legge i libri di Nollet in quello che diventerà il nostro Paese? A Napoli tra i suoi estimatori c’è il principe di Sansevero Raimondo Di Sangro (1710-1771). Appassionato di fisica sperimentale, il nobile napoletano ha allestito un laboratorio in piazza San Domenico Maggiore e qui si diletta a mescolare sostanze chimiche, mettere a punto congegni meccanici e concepire strumenti avveniristici.

Qui, nel novembre 1752, un cerino acceso cade accidentalmente su una polvere ricavata da un teschio umano: il composto prende fuoco ma sembra bruciare senza consumarsi; cinque mesi dopo è ancora acceso, e Raimondo si convince di aver trovato un “lume perpetuo”. Entusiasta, scrive a Nollet per raccontagli l’esperimento (4) . L’esperienza è così sconvolgente da essere descritta in termini erotici:

Rimasi io allora così contento di questa nuova e strana scoperta, che stetti per qualche ora sedendo a fare all’amore a solo a solo, per così dire, col mio nuovo fenomeno. (5) 

Come funziona il “lume perpetuo”? Geloso della sua scoperta, il principe di Sansevero non svela la ricetta per ottenerlo. A causa della sua discrezione, oggi non abbiamo idea di quale sostanza abbia ottenuto; con ogni probabilità un combustibile a lenta consumazione – un lume non proprio perpetuo ma comunque dalla vita molto lunga.

Giuseppe Sammartino e il Cristo velato

L’opera più famosa concepita da Raimondo Di Sangro è una cappella nel centro di Napoli, oggi uno dei complessi artistici più frequentati in città: la Cappella di San Severo. Al suo interno, una serie di spettacolari decorazioni marmoree fanno corona a una delle statue più famose al mondo – il “Cristo velato” di Giuseppe Sammartino (1753).

Il Cristo velato di Giuseppe Sammartino

Il velo che copre il corpo di Gesù deposto nel sepolcro è così realistico che alcuni rifiutano di credere sia stato ottenuto con uno scalpello: leggenda vuole che Raimondo Di Sangro abbia steso una stoffa bianca sulla scultura del corpo nudo di Cristo e l’abbia marmorizzata con una sostanza misteriosa. Il principe napoletano progetta di collocare l’opera in un seminterrato, illuminato da due lampade perpetue, sommando stupore a stupore.

Ma è davvero possibile pietrificare la materia? Il principe napoletano alimenta la leggenda facendo realizzare due opere terrificanti che chiama “macchine anatomiche”: gli scheletri a grandezza naturale di un uomo e una donna sono ricoperti da una foresta di vasi sanguigni allo stato solido.

Le macchine anatomiche di Giuseppe Salerno

Nel 1766 la Breve nota di quel che si vede in casa del Principe di Sansevero descrive

due Scheletri [...] ne’ quali si osservano tutte le vene, e tutte le arterie de’ corpi umani, fatte per iniezione [...] opera del Sig. D. Giuseppe Salerno Medico Anatomico Palermitano. (6) 

Il riferimento all’iniezione è inquietante: forse i due corpi appartengono a due esseri umani cui, ancora in vita, è stata inoculata una sostanza pietrificante? E nel caso, come avviene l’introduzione del liquido letale nel sistema circolatorio della coppia, se la prima siringa appare a Lione nel XIX secolo grazie a un’idea di Charles-Gabriel Pravaz (1791-1853)?

E se tutto fosse solo un’illusione?

La palingenesi. Il trucco dietro il velo?

Se l’obiettivo pubblico ed esplicito della magia è di compiere imprese impossibili, c’è uno scopo altrettanto importante che resta nascosto – perché infame e indicibile: il mago deve far sembrare magico ciò che non lo è. Le “macchine anatomiche” potrebbero essere l’opera certosina di un bravo fabbro che, intorno a vere ossa umane, ha usato fil di ferro per ottenere un groviglio di vene, arterie e capillari metallici. Il risultato è impressionante, ma – come il Cristo velato – potrebbe essere frutto di un bravo artista: in entrambi i casi la realizzabilità pratica di un’opera è talmente inconcepibile da incoraggiare la ricerca di spiegazioni magiche – come l’uso di misteriose sostanze pietrificanti.

Osservando di persona il Cristo e le due macchine, oggi una parte di me è stata tentata di accogliere la spiegazione magica, proprio come mi capita di fronte ai migliori illusionisti in circolazione. Le macchine anatomiche sembrano prodotte da un fluido iniettato nel sangue? Tanto basta.

Forse Raimondo Di Sangro concepisce come me la sua magia, e tiene nascosto (appunto perché indicibile) che il risultato “sembra” magico senza esserlo davvero. Il sospetto mi è venuto approfondendo i suoi esperimenti sulla palingenesi (o “rigenerazione”). In quegli anni gli scienziati si interrogano sulla possibilità di riportare in vita piante e animali bruciati – come accade alla fenice che risorge dalle proprie ceneri. Il tema è così discusso che gli illusionisti dell’epoca ne mettono in scena una versione simulata: il parigino Nicolas Philippe Ledru, in arte “Comus”, brucia una foglia e – senza farsi vedere – ne mescola le ceneri con della polvere ferrosa; poi versa il tutto su un vassoio, sotto il quale si nasconde una calamita a forma di foglia. Invece di spargersi qua e là, le ceneri riprendono la forma originaria, come guidate da una “memoria biologica” che le riporta alla posizione occupata quando erano parte di un essere vivente.

Il pubblico crede di assistere a una “dimostrazione” scientifica, ma Nollet si straccerebbe le vesti se dovesse assistere a uno spettacolo di Comus: altro che trasparenza, il mago deve nascondere una calamita per simulare la palingenesi!

E Di Sangro? Può, un uomo come lui, ignorare l’opera in quattro volumi di Edmé-Gilles Guyot sulle “nuove ricreazioni fisiche” (1769-70)? Stracolma di esperienze scientifiche stuporose, l’opera di Guyot prende spunto da quella di Nollet ma introduce il controverso ingrediente dell’illusione. Il quarto volume riporta quattro diversi esperimenti per simulare la palingenesi, ciascuno basato su trucchi sottili e complessi. Il trucco del magnete di Comus è descritto alla Ricreazione 11 (p. 49) mentre la Ricreazione 24 (p. 85) impiega la stessa sostanza chimica che ho usato per far apparire un ritratto di Gustavo Rol.

Scatola di legno truccata che crea l’illusione della rinascita di una pianta dalle proprie ceneri.
Planche 3 da Edme-Gilles Guyot, Nouvelles récréations physiques et mathématiques, Vol. 4, Gueffier, Paris 1770.

Quella che avviene non è un’autentica “rigenerazione” ma una sua simulazione. Per noi maghi è sufficiente che così appaia: sei disposto a credere che si tratti di palingenesi? Tanto basta.

Tutto ciò ha un costo: l’arte dei prestigiatori è incompatibile con l’etica della trasparenza di Nollet. L’illusione si basa su un velo, togliendo il quale il tutto crolla. Per questo Raimondo Di Sangro è restìo a svelare i segreti delle sue dimostrazioni “palingenetiche”? Perfino la Breve nota del 1766 afferma che non è facile assistervi, e che per convincerlo a darne prova

ci vuole della confidenza col medesimo.

L’opera di Raimondo Di Sangro allude di continuo a un’inversione della massima per cui “essere è meglio che apparire”, e in ciò è autenticamente magica: la magia, infatti, celebra il primato della superficie sull’essenza, scendendo a patti con una certa dose di immoralità e cercando di perseguire – attraverso tali compromessi – effetti estetici e stuporosi.


Note

1. L’esperienza è descritta in Jean Antoine Nollet, Leçons de physique expérimentale, Vol. III, pp. 114-5.

2. Jean-Antoine Nollet, L’art des expériences, P.E.G. Durand, Parigi 1770, Vol. 1, p. xxi.

3. Ibidem.

4. Novelle letterarie, Vol. 14, Stamperia imperiale, Firenze 1753, p. 276-84. Tutte le lettere di Raimondo Di Sangro a Nollet sono trascritte qui.

5. Ivi, p. 283.

6. Breve nota di quel che si vede in casa del Principe di Sansevero, 1766, pp. 19-22.

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