Oggi è morto Carlo Fruttero. Riporto qui di seguito uno dei suoi articoli scritti con Franco Lucentini. A quasi trent’anni dalla sua pubblicazione, l’invito dei due autori resta di grande attualità e acume. Ecco solo il primo dei molti motivi per cui mi mancherà.

È un vero peccato che nella scuola italiana la parodia non faccia parte dei normali strumenti d’insegnamento. In Francia è un esercizio obbligatorio, al pari del tema, del riassunto o della dissertazione; e Proust, tanto per fare un nome, continuò a praticarlo con gusto e profitto dopo essere uscito dai banchi. Mentre da noi, anche negli anni delle sfrenate dissacrazioni e dei rivoluzionari esperimenti, non venne in mente a nessuno d’introdurre «l’ora di parodia».

In parte, forse, per una malintesa forma di rispetto, come se scrivere due paginette «alla maniera» di Verga o D’Annunzio equivalesse a uno sberleffo, a uno sgorbio volgare sul loro sacro monumento. In parte deve poi entrarci quel rovinoso atteggiamento che gl’italiani hanno sempre avuto verso la cultura (ma anche verso la politica, l’economia, il sindacalismo, ecc.) che gli fa apparire «serio» soltanto ciò che è altisonante, impettito, astruso, per cui, conversamente, ogni approccio di sapore pragmatico gli sembra ignobile e superficiale. Ma sospettiamo inoltre che sia la difficoltà della cosa in sé a trattenere gl’insegnanti; i quali trovano evidentemente più comodo discettare astrattamente di stili, strutture, moduli semantici (e far poi mandare a memoria queste loro elevate considerazioni) che non scendere nel vivo del problema.

Per parodiare un autore bisogna infatti conoscerlo bene, averlo capito e fatto capire a fondo. E qui sta appunto la grande utilità didattica della parodia, che misura meglio di qualsiasi esame il grado di familiarità che l’alunno ha con un dato testo, e che al tempo stesso sdrammatizza quel testo, lo porta a un livello meno ostico, remoto, minaccioso, noioso, lo rende affettuosamente frequentabile anche per il futuro.

Si dirà che gli studenti, con quel poco che leggicchiano, non sono in grado di individuare la cosiddetta «cifra stilistica» di un autore, e tantomeno di ripeterla a comando in chiave ironica. Ma potrebbero esser messi sulla strada, invitati a raccontare il coinvolgimento di Renzo in un concerto rock o la visita di Lucia al supermercato, a descrivere una strage mafiosa in un bar con le cadenze di Gozzano, a comporre un’ode carducciana al totocalcio.

Senza contare che questo tipo di esercitazione si presta mirabilmente al lavoro di gruppo, perseguito con assurda demagogia in altri settori ma che qui darebbe i suoi veri frutti educativi. Perché, se appena i parodisti cominciassero a prenderci gusto, non si fermerebbero alla letteratura, passerebbero a rifare il verso ai generi più correnti d’espressione, dibattiti congressuali e dichiarazioni programmatiche, comunicati pubblicitari, teleinterviste e teledibattiti, confessioni di stars, allocuzioni ministeriali, ecc.

Un modo ideale, forse l’unico, per distaccarsi da quel pattume, espellerlo dal proprio sistema linguistico.

Scherzi di tale natura hanno sempre circolato tra compagni di scuola, ma in modo sporadico e improvvisato, sotto forma di battute, foglietti e recite di classe, senza mai meritare altro che la sprezzante qualifica di «irriverenze goliardiche». Eppure quei facili lazzi, se coltivati e raffinati, potrebbero dare a ciascuno una durevole sensibilità lessicale, che significa anche: igiene mentale, resistenza al fumo dogmatico, concretezza, abitudine a guardare le cose da diversi punti di vista, tutte cose di cui il nostro Paese non si può dire che abbondi. (1) 


Note

1. Carlo Fruttero e Franco Lucentini, “La parodia dell’obbligo”, La Stampa, 17 ottobre 1984 ora in I ferri del mestiere, Einaudi, Torino 2003, pp.13-15.

Tutti i post sono distribuiti con Licenza Creative Commons BY-NC-SA 4.0