Scrivo sotto l’impressione di una bella festa, a cui mi fu dato di assistere la sera di lunedì in casa del professore Pietro d’Amico, nome oramai noto dovunque la fama giunge colle sue mille e mille voci, che il genio di Guttembergo dalle mitologiche trombe trasfuse nei mille e mille giornali che pullulano sulla terra col constatato intendimento di turlupinare i posteri e mistificare la storia.

Il signor d’Amico non è un mago alla moda antica: in casa sua non ci è nè orciuoli, nè serpenti o coccodrilli impagliati, nè lambicchi, nè storte, nè misteriose ampolle custodi di misteriosi ingredienti.

Ci è invece una aperta e onesta ospitalità, franca, cordiale, schietta: ci è una persona compita, di ingegno pronto, di simpatico tratto, che vi parla col cuore in mano e guardandovi serenamente in faccia – la negazione, l’antitesi del ciarlatano. Il professore d’Amico non rassomiglia a Cagliostro, ma al buon Mesmer; egli è visibilmente ascritto alla milizia del bene: si vede a primo tratto che egli non desidera di ingannare, ma di provare: egli vuole delle conversioni convinte, non delle maraviglie abilmente provocate da un capace prestigiatore. Ciò che egli dice lo sente, ciò che fa lo fa colla coscienza convinta: questo traspare ai meno veggenti.

Poi in quella casa ci è una famiglia che incanta: la signora Anna è il ritratto della buona madre: i bambini sono angioletti: la Giuseppina, quindicenne, è un tesoro che padri e madri devono guardare con occhio d’invidia.

E quando si è detto ciò agevolmente comprendesi come una scelta società di persone, e gran numero di belle e distinte signore, e giovani egregi, e notabilità di ogni condizione sociale si incontrino volentieri alle mensuali serate del professore d’Amico, e tutti, quando ci sono stati una volta, rimangano col vivo desiderio di ritornarvi.

Reso questo omaggio dovuto al vero, io mi sentirei indotto a aprir le vele e a slanciarmi nel mare magno del grande ignoto. Ma, prima di avventurarmi in un pelago così infido, devo rispondere a una interrogazione che odo sussurrarmi dattorno dalle mie gentili lettrici.

– Ma dunque voi ci credete? dunque il magnetismo non è un mestiere? non è un giuoco di bussolotti? non è una insidia alla buona fede dei poveri di spirito, che compongono la maggioranza di questo nostro mondo?

A costo di pigliar dell’ingenuo, io risponderò senza ambagi che credo nel mistero – credo in quella misteriosa arcana forza, padrona e signora del creato, e che si manifesta nell’incessante inno gigante che milioni e milioni di voci concordemente sposate innalzano verso il cielo. Amo, credo, spero; e voi che, sotto pretesto di una scienza bugiarda, volete farmi un’automa, deh! mi lasciate in pace: meglio soffrire gli spasimi di cento dolori, che rinunciare ai gaudi di una fuggevole ora, di un minuto solo di felicità.

Lasciatemi salire un momento sul tripode della storia, lasciate che io evochi un’ombra, una parvenza di quel passato che fu lontanissimo e che si perde nella caligine buia dei secoli. La pitonessa freme, la voce parla – entriamo nel tempio, squarcisi la fatal cortina.

Quante rovine! Il Nilo dalle ignote sorgenti scende a fecondar le glebe arse dal sole africano: sulle pagine di granito degli obelischi e delle sfingi, sulle indistruttibili pareti delle piramidi leggo la biografia di un popolo grande. Tesori di scienza sono perduti sotto quelle cupe volte, dentro le arche di porfido dove l’arabo prese i monili, i moderni Champollion qualche frammento di geroglifico stampato, e dove oggi non rimane che un po’ di polvere vacua, polvere che fu potenza di Faraoni.

Ed io rammento di aver lunga ora interrogate le sfingi di Ramhses seppellite fino alla giubba sotto le arene infocate, e sulle fronti di pietra lessi l’autentico battesimo di quattromila anni. Chi regna in quella solitudine?

Iside e Osiride: l’amore eterno e la rinnovazione eterna: la madre perennemente feconda e il figlio giovanotto eterno. Thot, il fuoco, aleggia, misteriosa vampa, sulla creazione, e la vita si manifesta nel foco, vicenda alterna di due principii che camminano paralleli sulle vie dell’universo.

Ma il termine negativo esiste; la vita non finisce – si trasforma; tutto rivive; son gli aspetti, le forme che la vampa dell’anima compone, atteggia, plasma diverse. Una come il mondo, l’anima immortale, pellegrino eterno, va di sfera in sfera, di amore in amore; una e multipla all’infinito, principio e fine, oceano di luce senza confini e senza fondo, immenso grembo materno, d’onde emerge l’aura feconda che genera il bruco e il moscerino, il fiorellino del prato e il gigante della foresta, il coniglio, il leone, l’uomo, e che pei campi del cielo slancia a vagare stelle e comete erranti.

Più indietro, più indietro ancora: negli altipiani dell’Asia io cerco le orme prime dell’umanità: cerco fra il Tigri e l’Eufrate le rovine solitarie della grande imperatrice e siedo su quel monte di marmo e di mattoni fatto covo alla famelica fiera. Tutto tace, tutto è deserto, eppure grandeggia ancor viva e presente la memoria di colei che abolì le barbe, che Dante trovò all’Inferno, che

fu imperadrice di molte favelle
e a vizio di lussuria fu sì rotta,
che libito fé licito in sua legge,
per tòrre il biasmo in che era condotta.

E i monti si avvallano, il piano si distende verso l’orizzonte lontano come un funereo lenzuolo gittato sopra un’immensa necropoli. Il deserto si perde e si confonde col perenne sereno del cielo, e fa al viandante lasso mandare un ricordo e un desiderio verso le brine e le tempeste.

Ma dentro le buie piramidi, in seno alle tombe di Ninive arde pure qualche guizzo delle lampe fuuerarie che videro i giorni di Faraone e le notti di Sardanapalo.

Strana meditazione! strani insegnamenti della storia! milioni e milioni di libere menti, messe fra il vero e l’errore, non esitarono a scegliere; milioni e milioni di cori messi fra l’odio e l’amore non esitarono neppure – scelsero l’errore e l’odio.

Eppure, quando l’anima si spinge ardita verso l’infinito, la materia si va poco a poco raumigliando come a chi sale su un’alta cima vede rimpiccolir via via le cose di questa terra. Aperti gli occhi della mente allo sconfinato orrizzonte dell’avvenire, l’anima spazia libera nelle serene e pure sfere, e intravede, e comprende, e sente in sè quelle sublimi aspirazioni che sono i lampi del genio e che paiono quasi alla coscienza come l’eco di una vita anteriore perduta nella buia profondità del passato.

Felici coloro, cui è dato leggere nel volume misterioso che trasmigrò dalle rive del Gange a quelle del Nilo e fu sepolto nell’antro di Cuma. Che importa che il volgo ignori o derida la scienza? Scienza! la scienza è fede, e la fede non si impara.

Miracolo e mistero si avvicendano senza posa su questa scena del mondo; miracolo e mistero, lo sfolgorar del sole, miracolo e mistero, l’ala vagamente dipinta della farfalla. Nella tradizione di tutte le genti ci è serbata la memoria di una potenza arcana; il vecchio Samuele sorge minaccioso ravvolto nel suo lenzuolo al cospetto di Saul, la figlia del Giairo si sveglia dal sonno della morte alla parola di Gesù.

– E il professore D’Amico? odo domandarmi con ghigno mefistofelico il proto, mio degnissimo padrone, come quegli che regola a sua posta il letto di Procuste su cui l’appendicista si adagia. – E il magnetismo?.... e le musiche?.... e le danze?....

Il proto ha ragione: io ho fatto un vero pellegrinaggio, e mi riserbo di tornare a casa domattina se il direttore me lo concede, e allora discenderò dal tripode della tradizione e della storia, per raccontarvi, o lettori e lettrici, ciò che ho veduto e udito: delle esperienze strane, dell’allegria di buona lega, della buona musica e delle donnine bionde e brune, un mazzo leggiadro di fiori viventi, dove dalla rosa imperiale alla modesta viola ho scorto ogni fior gentile.

Torno da Ninive: abbandono le poetiche rive del Gange e dell’Eufrate per tornare all’ombra della Garisenda, dove mi conviene esaurire nel ristretto spazio che mi concede il Monitore il còmpito di relatore delle ciarle bolognesi.

Compiacetevi dunque o lettori cortesi e leggitrici belle, di accompagnarmi a casa Tanari, dove dimora il nostro mago, il professore D’Amico, il quale, come vi dissi, sa conciliare la grand’arte del negromante colla più perfetta cortesia del gentiluomo.

I distintissimi collegiati dell’Accademia, i professori dottissimi delle cento scuole che si contendono il privilegio della eredità di Esculapio, gli allopatici e gli omeopatici, i bianchi e i neri della medicina, i seguaci del mite Bufalini e i discepoli del sanguinario Rasori mi terranno il broncio, lo so. Ma io, a dire il vero, mistero per mistero, tenebra per tenebra, notte per notte, quasi preferisco la poesia che circonda i responsi della mistica veggenza ai pasticci e agli aforismi di una dottrina empirica.

Il professore D’Amico ha ricevuto i numerosi accorrenti al di lui invito con un po’ di predica: parole semplici, chiare, modeste di sacerdote: egli ha toccato il problema della preveggenza, quel segreto di una voce che nell’intimo dei cuori parla dell’avvenire, presaga di gioie e di sventure, profeta intimo e famigliare che chiamano presentimento.

Chi è che non ha provato nella vita una o due volte almeno questo fenomeno di cui nè la filosofia nè la scienza potrebbero dare una plausibile spiegazione?

La storia ha serbate le grandi prove: Alessandro, Cesare, Cristo, Napoleone ebbero rivelazioni più o meno precise dell’avvenire sotto la forma di presentimento: ma ciascuno di noi potrebbe narrare qualche caso di questa voce profetica, la quale talvolta si fa rivelatrice del futuro con una inavvertita, ma prodigiosa sincerità.

Ma a parte la psicologia magnetica, la lucidezza dell’anima, che quasi fatta libera dal materiale involucro ha una coscienza sconfinata e si emancipa da ogni ostacolo di tempo, di modo e di forma, ci sono dei fenomeni fisiologici che sarebbe vano voler mettere in dubbio.

Il D’Amico ci ha fatti vedere alcuni di tali fenomeni da lui provocati con molta fortuna. La rigidità marmorea delle membra fu ottenuta su tre persone con visibile sincerità: un quarto reluttante alla potenza magnetica finì per soffrire e ci volle l’intervento del magnetizzatore per ristabilire l’equilibrio delle funzioni vitali turbate da una incompleta e riluttante magnetizzazione.

Ma dove l’esperimento toccò l’evidenza fu nella completa soppressione della sensibilità: denudato il braccio della persona addormita prima fu praticata una puntura sulla mano e le fibre sensibili trasalirono dolorosamente, e il sangue imporporò la ferita; poscia abolita magneticamente la sensibilità la parte muscolare dell’avambraccio venne trapassata da un lungo spillone, e non un moto fu avvertito nella fisionomia del giovane catalettico, non una gocciola di sangue uscì dalla profonda trafittura. La impassibilità, la morte delle membra magnetizzate era assoluta.

La signora Anna D’Amico si prestò alla parte più controversa offerendo un saggio di chiaroveggenza, e fu curioso lo indovinare la persona di Gioacchino Pepoli, ambasciatore a Vienna, pensata appunto da chi scrive. Il buon marchese fu descritto appuntino colla sua adiposa figura di eccellente borghese, provocando la ilarità dell’uditorio, che tosto riconobbe il ritratto fedelissimo. Nell’estasi musicale la signora Anna ci mostrò il mito di Orfeo nella sua plastica espressione: ai patetici suoni dell’addio di Violetta rispondevano le movenze di una donna trasfigurata: anzi la donna era scomparsa, e rimaneva la statua cavata dallo scalpello di Fidia nell’insensibile pario a rappresentare l’ideale del dolore e della preghiera, la poesia ineffabile della giovane martire di vent’anni che dice un supremo vale al sereno del cielo, ai fiori della terra, ai sorrisi e alle lagrime dell’amore, e, inorridita allo spettacolo della sua pallida faccia stimmatizzata dalla morte, manda un ultimo grido di angoscia verso la vita fuggente.

L’arte è cosmopolita e universale: e, poichè furono esaurite le sperienze della igama il professore D’Amico regalò alle numerose persone convenute appo di lui una deliziosa serata di musica. Il signor Bacialli e un signor . . . . . cantarono il duetto dell’Attila; la signorina Tamburini con accento sentito disse maestrevolmente la stupenda cavatina della Beatrice e interpretò con rara squisitezza d’artista la melodia dolcissima di Bellini. Soltanto vorremmo consigliare la gentile signorina a moderare certi impeti di voce non opportuni in una sala, e neppur di buon gusto in teatro. L’egregia artista ha voce estesa e soave, che va al cuore, e non ha d’uopo di cercare l’effetto in volgari ed abusati spedienti: la prima parte della difficile cabaletta fu da lei cantata con purezza rara: ecco il vero canto, il canto italiano. Anche il duetto del Rigoletto ebbe applausi larghi e meritati, eseguito come fu con bell’accordo dalla medesima artista e dal signor Bacialli.

Debbo i miei complimenti alla signorina Ratti, che si rivelò avviata a riuscire una suonatrice distinta di quel difficilissimo stromento ch’è il pianoforte. Notate che io dico difficilissimo, e non a torto. Nel pianoforte (ch’è diventata una piaga sociale) gli egregi strimpellatori, son molti, ma coloro che sanno dal tasto cavare accento, espressione, e modificare il suono secondo la espressione del sentimento sono ben pochi. La signorina Ratti accenna a voler essere fra quei pochi.

Alla Giuseppina D’Amico, giovinetta ch’è orgoglio dei parenti e ammirazione di tutti, io non dirò parole troppe: dirò che tutti eravamo commossi, quando ci declamò con purissimo accento francese Le petit savoyard; che ci ha richiamata sul ciglio una lagrima irrefrenabile, quando ha recitata una mesta ballata; che ci ha elettrizzati, quando ha mimeggiata con rara intuizione una scena a capriccio, seguendo gli impulsi della musica, segnatamente in una saltarella strapazzata sul pianoforte dal vostro umilissimo servitore, fatto audace da tanta cortesia fino a strimpellare accordi e melodie con mano pigra e stracca.

Poi si ballò; e le danze animate, vivacissime, allegre si protrassero fino quasi all’albeggiare, alternate con geniali ragionamenti, e ben anco da qualche pellegrinaggio verso un certo appartato gabinetto, dove invece di orciuoli e di lambicchi erano preparati fiaschi di eccellente lico, succo puro e legittimo di tralcio italiano.

Ci fu persino gai e cordiali brindisi, pronube a quelle nozze dell’allegria e del buon umore, le gentili fate a cui l’appendicista si prostra per l’incantesimo con che loro riuscì di trasmutarlo brev’ora in sopportabile pianista di quinta classe – come dicea il povero Rossini. Magìa di neri vellutati occhi, di profonde e vaghe pupille azzurre, stretta amica di candide mani, sospirar di labbra coralline, modular soave di voci armoniose, il vostro potere è eterno; il mondo intiero è schiavo di un sorriso di amore, e non ci è despota, da Caligola a Maometto, che non si senta disarmato al cospetto di un’adorata beltà.


Tratto da Franco Mistrali, “Una serata di magnetismo” in Le ciarle Bolognesi, Società Tipografica dei Compositori, Bologna 1867, pp. 87-98.

Franco Mistrali

Una serata di magnetismo

Le ciarle Bolognesi, Società Tipografica dei Compositori, Bologna 1867, pp. 87-98.

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